IL LIBRO PIU' BELLO di Fabio D’Andrea
Blu.
Bianco.
È come se finora non avessi visto che colori. Niente forme, una fase primitiva della ricerca di Kandinsky, quando l’idea di delimitare la distesa cromatica non gli si era ancora affacciata alla mente e tutto era sfumatura o tinta materiale, così vera ed attuale da non poter essere interrotta. Toccata, forse…
Eppure per qualche strano motivo mi sembra di star pian piano tornando ad apprezzare i contorni. E le dimensioni. Tutte quelle cose che danno profondità e prospettiva, cosicché l’immensa tavolozza che mi circonda torna a risolversi in cose, in oggetti. Tutto tranne il cielo. Chi non ha mai visto il cielo greco in primavera non potrà capire, credo: ci riesco a stento io stesso e sono tra quelli che lo conoscono meglio. Lo osservo da più di due millenni, lo vivo da un tempo tanto lungo da aver a stento senso e questa è un’altra ragione per cui adesso è tutto così incredibilmente difficile.
Devono essere mesi che non guardo altro. Il cielo e le mura bianche da essere abbaglianti della torre. Anche il bianco in Grecia è un’altra cosa da quello che si vede altrove, ovunque altrove. Ha il sole dentro. È una chiara illusione tridimensionale, come una porta, e se lo fissi per un tempo giusto puoi passarci attraverso e andare verso altri luoghi. Chissà perché, è un’idea che non mi sconvolge più di tanto, come se per me non rappresentasse un problema, o una novità.
Mi sento anch’io come se avessi un sole dentro. Non so, non riesco a spiegarlo in nessun altro modo e anche così non è che sia granché chiaro, eppure è questo. Se ci penso, mi torna in mente un’illustrazione che devo aver visto da bambino (quale infanzia era? Chi ero? Chi SONO?) su un libro di astronomia. Era uno di quei bei libri con la copertina rigida, pieni di immagini e schemi su carta patinata per cercare di addomesticare l’ignoto, e parlava della nascita del sistema solare, dalla prima protonebulosa alla formazione dei grumi dei pianeti. C’era un disegno di Giove o Saturno – potrebbero essere entrambi, ma forse era Giove dopotutto – e la didascalia diceva che per un breve periodo il gigante aveva rischiato di trasformarsi anch’esso in stella, creando un sistema doppio e bruciando per l’eternità ogni possibilità di genere umano. Nel disegno si vedeva questa sfera abbozzata di materia, che con occhio divino si immaginava contemplata dall’alto, dalla quale si intuivano sfrecciare verso il nero dello spazio bagliori-vagiti di astro neonato che incrinavano solo per pochi microsecondi l’involucro bruto e pesante. L’involucro che si richiudeva sotto il suo peso immane e nutriva e conservava il sogno di splendore di un perenne incendio accecante. Ecco, se ci penso mi sento così, come se avessi una protostella in grembo, pronta ad ardere e meno sfortunata dell’aborto di Giove. Ho anche degli sprazzi in cui mi sembra di capire, di ricordare il perché di questa cosa strana, ma ancora non riesco a fermarli, a farmene una ragione.
Credo di ricordare, però, sempre più storie di un certo Fabio Woland, scrittore e viaggiatore, mezzo sangue, un tipo interessante direi, da quello che mi torna in mente, anche se non so di preciso come mai ne sappia tanto. Un sospetto mi si affaccia sempre più spesso alla mente, ma… E poi brani di una tragedia di Shakespeare, Amleto, del tutto fuori quadro rispetto al mio mondo (mio di chi? Chi cazzo sei?), questo mondo che sento mio con ogni fibra, con ogni cellula. Un castello grigio di pioggia e tristezza, una terra piatta e coperta di boschi estranei, fantasmi e tanto dolore. E poi frammenti di una lingua che non conosco, ma riconosco, comprendo, posso perfino discutere con una voce aliena eppure familiare, che a tratti sembra ammiccare e in altri momenti è remota, oscura. A volte sembra sogni e anch’io a volte penso di sognare, il sogno di più persone, anche se non capisco come sia possibile. Eppure, di nuovo, tutto questo non mi stupisce, mi pare in qualche modo normale. E la stella pulsa…La torre dev’essere antica, probabilmente una torre di avvistamento che risale a quando i pirati correvano l’Egeo. Non è facile stabilire quali navi dovesse segnalare, se già quelle dei Cilici ai tempi dei Romani oppure quelle di Cipro o di Siria o quelle ottomane dei secoli più tardi. È una struttura elementare, però magistralmente integrata nella scogliera, tanto che è difficile scorgere dove finisce il masso dal quale è stata in larga parte ricavata e comincia la materia domata dall’uomo. Ha una stanza alla base, praticamente una grotta coperta da un tetto di legno a grandi travi, nel quale scompare una scala scavata nella pietra. Oltre il livello del soffitto i gradini salgono a spirale lungo le mura fino a raggiungere una botola nel pavimento della terrazza di colmo. E sopra c’è solo il cielo, appena intaccato da merli rudimentali. Al centro della terrazza c’è un cerchio chiuso da sassi e accanto una piccola tettoia per proteggere la legna con la quale si doveva accendere il falò di segnalazione. Nient’altro.
La stanza ha due finestre ai lati della porta – poco più che feritoie – e un camino da una parte. Accanto, in terra, c’è un tatami con accanto una pila di libri, molti in greco dall’aria vetusta, nel più totale disordine. Poco più in là, lungo l’approssimativa circonferenza del muro, un baule dall’aria marinara. Un tavolo e qualche sedia completano l’arredamento. Fuori c’è uno spiazzo a cuneo bordato dalle labbra della scogliera, labbra screpolate dove crescono erbe stente e dure, perpetuamente schiaffeggiate dal vento che non cessa di soffiare e strilla spesso e volentieri intorno alla venerabile vecchiezza degli angoli della torre; in un canto più protetto, quasi all’ombra della torre c’è un olivo che dev’essere quasi coetaneo della costruzione. Ha il tronco devastato dal tempo, tanto da essere ormai tre alberi distinti, snelli e rugosi come giovani prematuramente invecchiati. Si alza quanto il riparo dei massi gli consente, con cime incredibilmente verdi e argento, quest’anno cariche di fiori e, se la stagione sarà propizia, di frutti, quelle splendide olive brune come donne greche, altrettanto succulente. È il libro più bello dell’attuale collezione di Fabio Woland, alias Amleto, alias Eraclito, quello che ha studiato con più attenzione in questi mesi, quando non si è concentrato sul limite tra pietra e pietra delle fondamenta della torre. Ed ha anche riflettuto su un sasso, che ha trovato nelle lunghe passeggiate all’intorno, quando quasi non vedeva altro che colore e i passi sembravano diretti da un qualche suo demone personale, che lo preservava dai precipizi e lo lasciava al sole, al meltemi e alla furia pietosa della pioggia, che lo lavassero e lo lasciassero puro ed essenziale. Proprio come quel ciottolo venato di grigio e verde e blu, liscio come seta, un figlio di torrente, un osso della terra.
Nel silenzio del suo esistere, Woland sa – saggio di Enigma e di Destino – l’essere intatto del sasso, così simile al diamante insondabile di Eraclito incastonato in lui. È una sapienza muta, che si esercita prima delle parole ed alla quale esse sono inutili, perfino nocive. Solo scoprendo in sé l’attimo senza tempo in cui è anch’egli uguale a quelle pietre così diverse, sasso e diamante, l’uomo vuoto che il demone guida potrà ritrovare se stesso e riaccendere ricordi e definizioni.Forse ricordo. Forse. La luce è sempre più forte, fa quasi male. Vedo crepe che disegnano arabeschi di fuoco sulla crosta dell’astro e so che mancano attimi acché tutto si rifaccia nuovo e chiaro ed io riprenda il mio posto su questa scacchiera. Credo di capire il sentiero che lega quei nomi che sento tutti in qualche modo miei ed altri ancora che si allineano in questa rinnovata coscienza. Sento, come un bambino che mi tiri per mano, cose da fare, legioni di cose da fare, eppure ancora sto, come una pietra al torrente, come un albero antico ed osservo il ribollire degli eventi di cui sono e non sono fratello. Uno e molteplice, scorro e resisto ora e per sempre!
C’è un dio, sull’isola greca, che cerca la strada del ritorno con passi umani ed occhi pieni di stupore. Ed in una chiara mattina di primavera, quasi sul far dell’estate, un uomo senza età si inginocchia ai piedi di un olivo eterno, smuove con delicatezza la terra tra le radici e vi seppellisce un ciottolo. Ora sa che quel luogo è il libro più bello che egli abbia mai scritto. Con passi sicuri ed uno strano sorriso negli occhi si avvia per l’erto sentiero, verso il mondo.
PATHOS © 2001
Associazione di Letteratura Interattiva