L’Apocalisse non è mai finita

Libera interpretazione e revisione a cura di Daniela Forni e Paola Urbinati

Master: Enrico Croce e Marco MOMM Lombardi
Primi Narratori: Matteo Turinetto, Marco il Tengu, Claudio Black
Arbitri: Yuri Artioli, Piermaria Maraziti, Stefano Raistlin


 
Prologo
 

Roma, 11 maggio 2002

È tarda notte quando entriamo in casa. Sergej voleva sincerarsi che non ci fossero pericoli e mi ha costretto ad aspettare un’ora in un pub. Sono stanca, puzzo di fumo, la bocca amara di troppi caffè. Sola davanti a un bicchiere di sidro pilucco svogliatamente patatine fritte, mentre ripenso a quello che il redivivo collegamento da palmare ci ha regalato: Menestrello in ospedale, Claudio Black scomparso, forse morto. Sbando tra incredulità e amarezza. Tre giorni fa, a Pescara. Nello zaino, un pacco di giornali sgualciti. Una notizia di cronaca mi informa che il 3 maggio, in via del Tempio, un esaltato, forse straniero, è impazzito e ha aggredito un passante con una bottiglia di Becherovka. E così ho la risposta al silenzio di MOMM. 

Nessuno, a parte Arthur, sa che siamo qui. Scriveremo di essere ancora in viaggio. D’altronde, ripartiremo subito: abbiamo un appuntamento a Torino fra due giorni. Aspetto. Riprendo il foglio che Sergej mi ha passato, quasi imbarazzato, durante il viaggio che da Gibuti ci portava sempre più vicini al cargo fantasma. Parole scritte pensando che, forse, non si avrà un’altra occasione e che ancora risuonano del tutto inaspettate:

Grazie per tutto quello che hai fatto, per il tempo che mi hai dedicato. Mi ero allontanato da Pathos perché intorno a me vedevo persone ubriache di Poteri, ciniche e ipocrite allo stesso tempo. Avevano sacrificato la propria Umanità in nome di qualcosa che chiamavano pomposamente Emozioni, ma che ne era soltanto un'astrazione. Io lo consideravo fanatismo, alimentato dall'insicurezza individuale e dall'inebriante sensazione del potere mistico. Ma al mio ritorno, ho incontrato persone come te, che hanno conservato gentilezza, disponibilità e fraternità. Grazie per avermi fatto sentire accettato. Grazie per avermi donato un po’ di amicizia... e scusami se sono stato freddo nei tuoi confronti, o poco disponibile, o arrogante. Ho pensato a così tante cose, viaggiato così a lungo, mi sono impegnato in tante battaglie, negli ultimi anni... da abituarmi a vedere correre vie le ore senza provare rimpianti, senza fermarmi a parlare seriamente con le persone che mi stavano vicino... perso nell'ideale della rivoluzione permanente, della lotta contro le ingiustizie, della redistribuzione dei beni, dei diritti dell'Uomo e dei popoli. Ma sto iniziando a capire che è giunto il momento di dare spazio ad altri sogni. All'amicizia e all'amore. Grazie...

Ci accoglie l’androne spoglio che ricordavo, non fosse per la pianta di ficus che qualcuno ha relegato in un angolo a prender polvere. È da febbraio che non metto piede qui dentro. Sergej si dirige verso le scale. Ricordo bene la sua passione per le scarpinate. Esitando mi guarda come a chiedere conferma: mi basta quell’attimo. Le porte dell’ascensore si aprono. “Ci vediamo al quinto, compagno”, lo saluto sorridendo.

Spalanco la porta-finestra che dà sul terrazzo e lascio entrare l’aria. Mi abbandono sul divano. Pochi minuti: quasi lo zaino blu gli fosse esploso, Sergej ha disperso ogni genere di cosa nello spazio ristretto del salotto prima di volatilizzarsi sotto la doccia. Tocco piano il balafon. Sul tavolinetto basso, distendo con cura, con una metodica lentezza, il fogliaccio rosa che ho appallottolato per rabbia. Rileggo la colonna dei suicidi e degli omicidi. Prendendola da lontano.

Francesca, anni 35. Laureata in informatica, taciturna, una sigaretta dopo l’altra, sempre in viaggio per lavoro, forse seguace di una setta, forse innamorata di qualcuno che non la ricambia. Un giorno di maggio si sveglia all’alba stufa della vita. Raggiunge a piedi la ferrovia con indosso pigiama e ciabatte, si sdraia sulle rotaie in attesa di un treno che la stritoli, ma senza avere l’accortezza di stendersi di traverso sui binari. Un convoglio diretto a Milano le passa sopra senza lasciarle un graffio, il macchinista non si accorge di nulla. Imperterrita lei rimane in attesa, ma non riesce a morire nemmeno sotto il treno successivo: stavolta il conducente la vede e chiama la polizia. Quando si dice il Destino…

Ma è la notizia riportata poco oltre quella che mi interessa. Qui. A Roma. E non ho potuto far niente.

Triplice omicidio alla stazione Termini di Roma. Nella notte fra il 7 e l'8 Maggio un'esplosione ha scosso la stazione Termini di Roma. Due le vittime tra le quali si pensa ci sia anche l'attentatore: Enrico Croce professore aggiunto di Teosofia presso l'Università Cattolica di Milano e Simona Whitman consulente in lingue. I testimoni affermano di aver visto per qualche secondo i due lottare su una panchina prima che avvenisse l'esplosione. Si suppone che uno dei due stringesse a sé un ordigno esplosivo. La scientifica è al lavoro per identificarlo. Più tardi, nella notte, è stato ritrovato un terzo cadavere in uno dei bagni, freddato con un singolo colpo in testa. Una donna. Probabilmente tossicodipendente. Un poliziotto afferma di essere stato aggredito da una coppia di uomini nello stesso bagno (probabilmente gli assassini in fuga). Nel caos seguito all'esplosione però questi sono riusciti a fa perdere le loro tracce. Si sta tentando un identikit. In attesa delle autopsie gli inquirenti si trincerano dietro un rigoroso "No comment". 
 

Mattina, ore 11.

Mi offro un caffè al bar poco lontano. Al ritorno, il portiere mi consegna una discreta quantità di posta. Sono convocata da un avvocato. Tale Zoppi.
 

Roma, 13 maggio

Mi ha consegnato un plico: le disposizioni testamentarie di Enrico, il rituale di cui mi aveva parlato, il motivo per il quale, ora, so di so di aver fatto bene a tornare.

E così, amico mio,
niente più discorsi troppo difficili da comprendere, né deliri da decifrare e nemmeno la dolcezza di sapere che, nonostante idee tanto diverse, avremmo sempre avuto l'uno nell'altra l'aiuto che solo un affetto sincero può dettare.

Strano pensare che, almeno per un poco, io ti sia sopravvissuta. E strana la mente umana. Averti strappato alla Morte una volta mi aveva fatto coltivare l'illusione di averla allontanata da te per un tempo ancora lungo e di poterla allontanare di nuovo.

Diffidente come sei sempre stato, mi avresti detto di non scrivere. Di questi tempi, sembra che basti poco per morire. Ma volevo dirti addio, Enrico, senza nascondermi.

Sto tornando da quel cimitero galleggiante che è ormai la Plantagenet Pitch. Il mio sguardo è ancora colmo dell'orrore dei corpi in putrefazione: esseri umani morti mentre ne mangiavano 
altri. Ma a cosa torno? Trovo chi amo deriso, ferito, scomparso nel nulla, ucciso.

Sono ancora sulla Plantagenet Pitch? 
Ci divoreremo l'un l'altro?
 

Mi lascio cullare dal dondolio del treno, la testa poggiata al sedile. Curiosa, osservo Sergej che, nel corridoio, di ritorno da una spedizione alla ricerca di caffè e di qualcosa da mangiare, è stato bloccato da un controllore diffidente e si industria per non far cadere nulla mentre cerca il biglietto perso in chissà quale tasca bucata. Alto e magro, dopo Gibuti è ancora più abbronzato rispetto alla prima volta che l’ho visto e ha ripreso a indossare il basco con la stella rossa. Ma come non capire il controllore? Mitrescu sembra proprio un vagabondo: i lunghi capelli scuri sono disordinati, veste abiti fuori moda, consunti in più di un punto e costellati di toppe. Come se non bastasse, ha due cicatrici sul viso. Mi cerca con lo sguardo azzurro cupo per chiedermi aiuto. Mi alzo, apro la porta dello scompartimento. Con la sua pronuncia così strana, un confuso miscuglio di parlate, sta assicurando di avere il biglietto. Sfodero un sorriso tranquillo al controllore: “Scusatemi, non avevo capito fosse questo il problema. Sergej, hai dato a me il biglietto, avevi paura di perderlo”, spiego mentre estraggo il foglio dalla borsa. Faccio finta di non accorgermi di un’occhiata che, tra il divertito e l’arrabbiato, mi incenerisce.

Poche ore. Ancora poche ore e saremo a Torino. Sembra quasi che un cerchio si chiuda. Torno là dove Black mi ha contattato quando Enrico era in pericolo. Là dove ho conosciuto White Noise. Torno.
 

L’appuntamento

Patrizia mi ha detto che qui vicino hanno girato una scena di Profondo Rosso. Aspetto, immersa nella luce di una Torino luminosa. Sono sola. L’invito era molto chiaro. Nervosa, gioco con un biglietto usato fino a dargli la forma di una sigaretta mentre mi guardo intorno. Mi chiedo a quale incrocio, piazza, locale, in quale via aspetteranno gli altri.

Arriva un taxi: il conducente ha una faccia a punto interrogativo ma sa il mio nome. Mi porta con calma in una zona non molto lontana. Il guidatore di un pulmino parcheggiato ci fa dei cenni. Paga il taxi e mi invita a salire. Mi consegna una busta che contiene quello che sembra il deplian di una gita tipo: "San Giovanni Rotondo, visita al santuario di Padre Pio, un simpatico Premio in omaggio solo 3 euri... Durante il viaggio ci sarà la presentazione dei prodotti..."

Invece questo dice: "Cara amica, un augurio di benvenuto e un ringraziamento per la tua partecipazione. Sei pregata di spegnere il tuo telefono cellulare E DI NON PORTARE ARMI e lasciare che il latore della presente ti porti dove richiesto." 

Spengo il telefono. In silenzio, consegno la browning .45 in copia cinese che, come ho detto una volta a Sergej, non mi sento molto tranquilla a portare in giro: potrei usarla solo come oggetto contundente. Ma non riesco a evitare l’indugio, lo sguardo di congedo che si riserva, più che a uno strumento di morte, a un oggetto caro, che ci ricorda qualcosa di particolare.
Un cenno deciso. Devo lasciare anche il palmare della Fato.

Mi portano in una zona non distante della città. Una voce mi invita a salire al primo piano.
La targa dice: DATAMEDICASEARCH. 
Uno studio medico. In apparenza: il mio medico non mi fa passare tra due porte blindate di sicurezza. Quando una è chiusa si apre la seconda. Mentre sono dentro sento una leggera decompressione: Pssst! 
Oltre la porta due gentili signori mi salutano, mi invitano a poggiare borsa e giacca al guardaroba.
“Daniela Spiranti”. L’infermiera sta in un camice attillato, da film, un po’ afferma e un po’ interroga mentre legge il mio nome su una lista. 
I signori mi dicono: "Scusi un attimo... è solo un momento" e fanno un controllo con un detector portatile per metalli a massima scala di sensibilità. Mi fanno consegnare oggetti “non necessari”: un portachiavi, il cerchio d’argento al polso.
Mi chiedono di spogliarmi. Vengo sottoposta a una lastra al torace e al bacino.

Sono gentili. Mi offrono qualcosa da bere. Mi restituiscono i vestiti. Il resto della roba è in una valigia ben piegata e ordinata e un signore me la porta, mentre mi accompagna a piedi sul retro fino a un altro pulmino. Il suo sorriso tranquillo non stempera del tutto il nervosismo per la mia roba. 

In una zona poco lontana, un altro studio medico. Di nuovo mi invitano a salire. Un’altra doppia porta blindata. Un altro: Pssst.
Non noto nulla di strano. Passo per un corridoio. Sento un: Bip bip
Dal fondo mi invitano a lasciare la borsa, a passare di nuovo e avanzare senza.
Eseguo. Avanzo e in fondo al corridoio sento ancora un: Bip! bip!
Penso che si siano rincoglioniti.
Una bella ragazza mi fa un sorrisone e si scusa, invitandomi a entrare schiude una porta. La mia roba mi segue subito. Un medico mi invita a spogliarmi ancora, mi fa qualche domanda, mi chiede di fare un controllo del sangue. 

La sua gentilezza non stempera la mia ostilità all’idea delle analisi. Mi piego, di malavoglia. Mi concentro sui gesti sicuri dell’infermiera formosa che prepara il braccio e stringe il laccio. Quante di queste maledette analisi ho fatto ormai dal giorno dell'incidente? Volto leggermente la testa e guardo altrove quando l'ago penetra: non mi abituerò mai. "Non so se vi è utile saperlo... soffro di una forma leggera di epilessia". Cosa starà facendo il dottor Henghel in questo momento? Metadone? Che aspetto avranno quelle braccia sempre coperte dalle maniche? Immediatamente, il pensiero corre a Thomas e agli altri. Ma cerco di fare il vuoto: non voglio tormentarmi con ipotesi inutili. "Non potevo fare altro", mi ripeto. "Dovevo tornare".

Mi consegnano un foglio: "Ti ringrazio ancora della tua pazienza. da questo momento ti chiedo di non comunicare con il mondo con i tuoi mezzi. Se devi mandare messaggi, scrivili su un foglio e consegnali a chi ti accompagna. Lo faremo arrivare noi in modo sicuro. Siamo costretti per ragioni di sicurezza a chiederti di rinunciare momentaneamente ai tuoi abiti e alla tua roba, ti verrà riconsegnata tra poche ore".

Mi chiedono di spogliarmi nuda per una radiografia. Sensazione leggera di imbarazzo nonostante il medico comunichi con me tramite un microfono dall'esterno della sala. Mi sento indifesa. Freddo del metallo. Abbiamo fatto, grazie. La sua voce mi invita a non rivestirmi e ad aprire una porta. Mi ritrovo in una stanza riscaldata, dalle finestre scurate. La luce rileva quattro donne, di cui tre cinesi, inginocchiate. Hanno dei pennelli. Quella caucasica, senza smentire la gentilezza di tutti quelli che mi hanno parlato finora, mi chiede di restare in piedi, immobile. Vogliono dipingermi il corpo. 

Lascio fare, mentre la tensione si allenta e nella mia testa ha inizio una sorta di conversazione con Black. "Era impressionante quell'uomo, non è vero? Quella specie di libro vivente... le tracce che Croce aveva lasciato per noi non erano proprio rassicuranti. Diavolo, Black, non puoi essere morto... e il Tengu che non mi risponde". Mi strappo da questa specie di autocommiserazione da povera bambina abbandonata. Argine ai detriti, argine al fango. Ho un patto da rispettare. La fiducia di Enrico da non tradire. Troppo in gioco per potermi permettere di scivolare nel dolore. Troppo.

Poi mi danno l’ennesimo foglio: "Riceverai degli abiti comodi, ti prego di indossarli. Per favore, non cancellare questi simboli, sono importanti. Se ne andranno via col tempo". 
Mentre mi rivesto lentamente con questi abiti non miei, mi osservo: hanno disegnato caratteri cinesi e degli animali. Tra i simboli ci sono un cane e un coccodrillo.

Con un pulmino mi accompagnano in una zona lontana. Non ho più nulla, addosso solo la comoda tuta da ginnastica con scritto: Romania. Arriviamo in una zona industriale. C'è un capannone. Cammino per un po’. 

Non si sorprende, lei che era un po' impacciata, troppo formale, non si sorprende stavolta nel ritrovarsi ad abbracciare gli altri Destinanti con uno slancio che vuole trasmettere, nonostante la stanchezza e l'amarezza che prova da quando ha saputo di Enrico, tutta la gioia dell'averli ritrovati.
 

 

PATHOS © 2003
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