L’Apocalisse non è mai finita

Libera interpretazione e revisione a cura di Daniela Forni e Paola Urbinati

Master: Enrico Croce e Marco MOMM Lombardi
Primi Narratori: Matteo Turinetto, Marco il Tengu, Claudio Black
Arbitri: Yuri Artioli, Piermaria Maraziti, Stefano Raistlin


 
SACRARIO DI PSICHE

PARTE I
IL RISTORANTE

Il paese era disteso lungo la riva del Reno. 
Vigne, casolari, capannoni e una vecchia casa, la più antica della Germania, risalente all'850, disposta su due piani, con un bel giardino, dove si poteva mangiare d'estate.

Lo sguardo di Enkada si perse sulla vallata mentre il resto del gruppo entrava nell'antico edificio adibito a ristorante. Non aveva parlato quasi con nessuno durante il viaggio, ad eccezione di Aliria e Arthur, con cui aveva scambiato qualche parola. 
In aereo era andata spesso in bagno ed aveva anche vomitato, ma aveva rassicurato con un cenno quelli che le si erano avvicinati.
Rimase un poco indietro, immersa nei suoi pensieri, poi seguì gli altri.

All'interno la stanza appariva spoglia, anzi sembrava che i quadri fossero stati appositamente rimossi. 
Restavano soltanto due cose: una copia autografa della traduzione tedesca de "La Lunga Marcia", di Aureliano Buendia, e una litografia.
Il libro era aperto sulla pagina autografa, la dedica recitava Al Custode dell'Essenza del Reno. 
La litografia raffigurava un corpo sormontato da una testa di Giano che teneva in una mano una spada e nell'altra una serie di strumenti da ingegnere o architetto.
Sullo sfondo era rappresentato un paesaggio anch'esso diviso in due parti: a quella in cui Giano era raffigurato con i compassi in mano corrispondevano campi coltivati, ricchi e ben irrigati; su un edificio sventolavano delle bandiere con uno stemma raffigurante tre rospi.
La parte corrispondente alla spada mostrava campagne devastate, eserciti nell'atto del saccheggio, uomini impiccati e appesi alle ruote; una chiesa dominava su tutto e gli eserciti avevano come vessillo la croce. 
Una targhetta riferiva che la litografia era tratta dall'Atalanta Fugens di Maier.

L'uomo che Arthur aveva presentato come Zed si fermò davanti alla litografia.
"Il Signore del Doppio Spirito..."
Aveva la faccia da yankee, parlava inglese con accento italiano, e come italiano usava il broccolino. 
Arthur gli si affiancò e si soffermò anch'egli sulla litografia, poi si rivolse a Zed:
"Ma questa…non è quella che spedii ad Asmodeo tanto tempo fa?"
Il giovane pareva piacevolmente sorpreso.
Zed lo guardò con attenzione.
"Asmodeo? Intendi Belbo? A noi fu mostrata la seconda volta da Marzia Possente. E sai anche da CHI ci fu mostrata la prima volta. Ora che ci penso, di quelle due cene sono l'unico sopravvissuto..."
Si versò un altro bicchiere di Gewurz e lo sorseggiò lentamente. 
"Iddio creò grandi balene... Ed io solo sono sopravvissuto per raccontarvelo".

Enkada osservava gli oggetti presenti nella stanza con curiosità; era possibile cogliere nel suo sguardo una scintilla di comprensione, ma si percepivano anche domande trattenute.
La scena di devastazione, nella litografia, sembrò attrarre la sua attenzione. Vi si soffermò davanti alcuni minuti, lo sguardo perso dietro al filo dei ricordi e delle immagini evocate nella mente.
Non si accorse di Daniela che si era fermata accanto a lei per studiare l'immagine: Giano. Osservare attentamente un quadro permetteva alla donna di lasciar liberi i pensieri senza ferirsi con schegge fuori controllo. Quante cose di lui che non aveva capito. Eppure non aveva importanza.

La tavola imbandita era stata preparata con una trentina di coperti. Il menu probabilmente era già stato deciso: sei piatti, ognuno dei quali abbinato ad un bicchiere di vino del Reno.
Il vino, naturalmente, era un bianco tedesco, molto zuccherato; per chi lo apprezzava sarebbe stata una cosa incantevole, chi fosse stato abituato ai bianchi italiani probabilmente sarebbe rimasto sconcertato. 
E sconcertata era anche Daniela. Non si aspettava certo un pranzo. E di questo genere.

Quel luogo era il Sacrario di Psiche e con la prima portata... il Rituale ebbe inizio.
"Adoro questo tipo di rituali" – commentò sorridendo l'Araldo delle Moire mentre si sedeva a tavola. 

Arthur prese posto chiacchierando amabilmente con Zed di vini e formaggi e di amici comuni. Durante il pasto il suo viso perse a poco a poco i tratti induriti dalla tensione e riaffiorarono linee più dolci, il volto di un ragazzo costretto dagli eventi a crescere e invecchiare. 
Zed borbottava tra sé: “La cucina non è più quella di una volta... per fortuna la cantina è sempre eccelsa". 
Si limitò solo a mangiucchiare e gustò invece con molto piacere, quasi con estasi, il bianco del Reno. Si alzò molto spesso dal tavolo col bicchiere in mano e sorseggiando continuava a studiare la litografia, come se dentro ci fosse un tracciato segreto.

Simonasky mangiava, a piccoli bocconi e lentamente. Scrutava il cibo, lasciandosi ammaliare dal colore, dal sugo brillante che lo avvolgeva e che scorreva lento sulla superficie, prima di stringerlo leggermente tra i denti e separarlo dalla forchetta. 
Lo incideva leggermente, per saggiarne la consistenza, e lo toccava con la punta della lingua sperimentandone la scabrosità. L'odore cominciava a stuzzicare le papille gustative, e la saliva affluiva, raccogliendosi sotto la lingua, prima che il profumo raggiungesse l'interno del naso provocando una leggera scossa che si propagava veloce fino allo stomaco, che attendeva straziato. 
Una stilla di sugo veniva cullata sulla lingua prima di essere deglutita. 
Poi, gli incisivi affondavano con brutale risolutezza nel cibo separandolo in due parti, che venivamo masticate con selvaggia soddisfazione e a lungo, sperimentando tutta la gamma di sapori che sprigionava il bolo man mano che la saliva separava le molecole, producendone di diverse.
Dal vino, invece, traeva il più grande piacere guardando. 
Colori, sfumature, trasparenze commoventi e cerchi di glicerina che pian piano colavano verso la superficie rubizza. 
Il vino veniva prima annusato leggermente, in modo che ogni diversa sostanza rilasciasse il suo odore separatamente e chiaramente. Poi Simonasky inspirava forte per sperimentarne la possanza e farsene inebriare. 
Amava i vini rossi, forti... quelli brutali del sud, dai quali sentirsi violentato e lasciato inerme e felice. 
Il vino che in un attimo sprigiona nella tua bocca l'energia che il sole bruciante ha instillato quotidianamente nei frutti. 
Il vino, prodotto ultimo della degradazione del frutto sodo, tronfio e vitale, come la putrescina su di un cadavere, succulenta prelibatezza per gli ultimi carnivori, come noi siamo null'altro che gli ultimi animali, le iene della catena erbivora. 
Buttò giù un sorso, che raccolse una certa quantità di resti di cibo trasportandoli verso lo stomaco, mentre il suo cervello riportava all'attenzione un'informazione curiosa, segnalandola come passibile d'indagine. 
"Prima parlavi del Signore del Doppi Spirito, Zed. Tutti i Signori del Pathos hanno un doppio volto. Noi stessi, Uomini ed Alterazioni. 
Forse gli dei si sono mai soffermati a considerare cosa significhi vivere dominati, lacerati da Distruzione e Desiderio? O sballottati come una nave in tempesta da Psiche e Sogno, alla ricerca di un approdo che non esiste?" 
Parlava quasi a se stesso, guardando il riflesso del gambo del bicchiere filtrato dal fondo di un Refosco dal peduncolo rosso.

Zed smise di traguardare il calice e osservò Max.
"Lo so, lo so bene. Ma il Doppio Spirito è una cosa diversa; non sono due volti che combattono in una sola anima; sono due anime che combattono a fianco l'una dell'altra con un'unica e condivisa aspirazione; una mano che regge la spada, ed una mano che regge il compasso."

Il pranzo pantagruelico si protrasse per diverso tempo mentre le menti venivano arricchite dai sapori e addolcite dall'ebbrezza. Il vino in particolare scendeva come rivoli divini, colmando ogni coppa, turbinando sui palati degli intenditori, insinuandosi gentile nelle narici dei più fini, bruciando dolcemente nelle gole dei più assetati.

Enkada si ripropose di non toccarlo. Assaggiò la carne, poi prese direttamente il dolce. 
Appariva spaesata, soprattutto quando alcuni degli emphatici si scambiavano abbracci commossi, come se si ritrovassero dopo lungo tempo, e come se cose non dette, sguardi carichi di significato, li unissero. 
Lei non partecipava a tutto questo. 
Del resto era la prima volta che molti di loro la vedevano, qualcuno era con lei a Praga, qualcuno era stato a casa sua, qualcuno sapeva che era succeduta ad AlexGloom nella carica di Maestro del Segreto perché non c'erano altre alterazioni a Discordia.

Tarrant rifiutò con decisione il cibo, si fece portare un cartone di latte e un bicchiere, poi uscì in giardino riflettendo sulla litografia di Giano mentre sorseggiava. 
Nella sua mente ripercorse più e più volte gli eventi alla Stazione Termini. Era ormai sicuro che Enkada non si fosse accorta della sua presenza lì, come non era a conoscenza che era stato lui a uccidere Miriam, l'assassina di Croce… poi il filo dei pensieri venne interrotto, Arthur lo stava chiamando dalla soglia e lui rientrò. 

Daniela aveva notato quel rifiuto a prendere parte al pranzo e avrebbe voluto parlargli, ma una sorta di timore glielo aveva impedito e ormai era il momento di scendere: l'onorazione a Psiche era terminata. 
Si era accodata agli altri ma improvvisamente un braccio si appoggiò allo stipite della porta bloccandole la strada. Tarrant la stava fissando, freddo, un’espressione ferina negli occhi azzurro cielo. "Cosa c'è?" – chiese con voce controllata.

Trasalendo a quel gesto inaspettato, un punto interrogativo stampato in faccia, Daniela ricambiò l’uomo con uno sguardo verde scuro dal quale scomparve in fretta ogni traccia di distrazione, mentre piegava leggermente gli angoli della labbra, quasi aspettando.

"Da quando siamo qui" – proseguì il sicario – "ti ho sorpresa almeno un paio di volte a fissarmi. Devi dirmi qualcosa? Altrimenti dacci un taglio."

Arthur era l’unico ad essersi accorto di quello che stava succedendo e si era voltato a guardarli: ma indugiava, come indeciso se avvicinarsi o meno.

"Non hai bisogno di minacciarmi" – rispose, con una calma presa in prestito all'irlandese che sorprese anche lei – "Non ci siamo mai incontrati, ma ti ho scritto, molto tempo fa, mentre eri in fuga. Conoscevo Erebo. O meglio: Federico. Per me era Federico e basta. Per questo ti guardo. Eri parte di una vita che non conoscevo affatto, che mi è stata rivelata quando era ormai tardi. Tutto qui".

Tarrant ricollegò la ragazza alla mail e ai fatti dell'epoca.
Le spalle squadrate si rilassarono. Si sentì anche un poco in imbarazzo e maledì la sua malafede nel prossimo.

La tristezza delle ultime frasi – lo sguardo che si perde su un punto qualunque e poco interessante del muro – si stemperò in un sorriso breve, luminoso: l’anticipo di una domanda pronunciata con una strana dolcezza: "Pensi di farmi passare ora?". 

Il sicario scattò per farsi da parte: "sì, certo...". Esitò, lasciando la frase a metà.

E lei, come se avesse cambiato idea d'improvviso: "Quando hai conosciuto Federico?”. Negli occhi, quasi uno smarrimento. "La sua morte mi sembra ancora irreale. E quella di Enrico ora…". Ti spiega a voce bassa, d'un fiato. 

Si irrigidì di nuovo. “Duro come un chiodo da bara”, aveva detto di lui Pantarkos. "Nel settembre del 2000. Un mese dopo lo rincontrai a Parigi, ero li per un… umm... lavoretto”. 
Non gli sfuggì lo sguardo rapido di lei, indirizzato a qualcuno alle sue spalle: l'espressione e un sorriso fugace gli dissero, senza che avesse bisogno di voltarsi, che aveva tranquillizzato Arthur. Ora lo ascoltava con attenzione, cercando di collocare nel tempo quello che le stava raccontando.

“Raggiungiamo gli altri”. Con calma, continuò a parlare, anche se scendere per quelle scale ripide non favoriva la conversazione. 
“Parlammo a lungo, mi espose la sua teoria sui Canali e le idee di base che poi si sarebbero concretizzate nel rituale che avrebbe dovuto svolgere la notte dell'Armageddon. Io gli parlai dei Templari di cui all'epoca ero a capo. Ci conoscevamo poco ma eravamo interessati l'uno alle idee dell'altro e parlare ci veniva sponteneo. Ci fu un altro incontro dove mi mise in contatto col mio canale e mi rivelò il mio "simbolo" e io lo difesi da Horus... ci rimettemmo quasi le penne tutti e due. Poi partii per il Brasile a caccia di un demone perdendoci di vista ma ci siamo rincontrati a Lucca quella fatidica notte; avrei voluto partecipare al suo rito, ma ero troppo impegnato a combattere ancora quello stesso demone che ci aveva seguito. Non potei far nulla per lui. Poi scoprii chi era l'assassino, lo stesso che aveva ucciso l'unica donna che abbia mai amato, o almeno la sua essenza, e aveva tradito l'umanità ai miei occhi. Un Limite era stato infranto e pensavo che una punizione sarebbe stata inflitta: così non fu. Allora lo feci io”.

Con l’aria di chi sia impegnato a rivedere una qualche convinzione che ha appena vacillato con forza, lei si appoggiò al muro con una mano come a sostenersi: "Una parte della vita di Federico che nemmeno esisteva, per me. Vuoi sapere una cosa? Non so nemmeno di che demone parli." 

Tarrant scrollò le spalle a indicare che non aveva importanza e proseguì: “Oggi sono chiamato Caino e porto questo marchio sulla fronte". Con un gesto rapido scostò i lunghi capelli castani a scoprire la fronte, mostrando un marchio a forma di goccia color sangue. Si interruppe, il respiro più profondo e gli occhi che malcelavano un tormento interiore: “Non so quanto le cose che ti ho raccontato possano esserti d’aiuto. Io conoscevo Erebo, tu hai conosciuto Enrico: due creature completamente diverse”.

Lo sguardo si fermò in quello di lui. Il ricordo di un gesto simile, a scoprire un altro marchio. Menestrello. Con la punta delle dita Daniela fece per percorrere la goccia sulla tua fronte, quasi potesse lenire in parte l'amarezza con la quale Tarrant aveva ricordato il nome di Caino. “Sì, è vero: completamente diverse. Ma ho voluto bene a entrambe”.
Tarrant chiuse gli occhi, accettando il gesto, un contatto umano che leniva il dolore di essere un marchiato e la conferma che qualcosa di buono c'era nelle sue azioni. O perlomeno negli intenti. Un grazie accompagnò la carezza con la quale lei gli sfiorò appena la pelle. 

In silenzio, ripresero a scendere. L'umidità e l'odore di legno preannunciavano l'ambiente che avrebbe dato asilo alla parte attiva del rito.
Si aprì un arco, e l'oscurità inghiottì anche loro, come aveva già fatto con tutti gli altri. Ognuno era solo nel buio dell'inafferrabile, avvolto da fruscii e respiri, mentre il gioco degli odori e dell'istinto sceglieva i posti. Pavimento freddo: ma inginocchiarsi, sedersi, sdraiarsi apparve quasi normale.
"NULLA!" 
La voce terrorizzata di Damien si levò nell'oscurità, fu quasi percepibile, nel buio, il cuore accelerato all'impazzata. 
"Scusate…" – giunse la sua voce un attimo dopo.

Aspettando..

In silenzio Enkada si era accodata alla fila di emphatici che scendevano nell'oscurità. La mano appoggiata alle pietre umide ne seguiva la linea. L'odore di cantina le entrava nelle narici, avvertiva l'umidità sulla pelle. Era una sensazione piacevole: le ricordava quando era bambina. 
Al buio seguì i contorni della stanza in cui erano giunti per fermarsi ad un angolo.
Nel buio, tutti i bambini lo sanno, si annida ogni genere di spettro e fantasma, babau e troll, pronto a ghermirti quando chiudi gli occhi, che attende solo che tu t'assopisca per trascinarti nel più profondo degli incubi della notte.
Forse era uno spettro. Forse solo l'immagine distorta di una memoria che riaffiorava per la sacralità del luogo. Forse solo uno scherzo della mente che tentava di riempire il buio ossessivo con immagini che fossero familiari e al tempo stesso perfettamente credibili…

Una lucina si accese come d'incanto, brillando tremolante quasi avesse paura di scomparire troppo presto. 
Dietro di essa, il volto contrito in un sorriso a labbra spente, tra il benevolo e l'ebete, il figlio di Dedalo osservava i convenuti, quasi volesse dire "vi aspettavo da così tanto…".
Le pieghe bianche del vestito non nascondevano la fasciatura candida intorno alla spalla destra, mentre con il braccio opposto il ragazzo ne sistemava le circonvoluzioni. Un'altra benda, nera come il buio intorno, era avvolta al polso sinistro.
Non ci furono parole, solo muti abbracci con chi si avvicinava, interrotti da un grugnito quando la stretta si faceva troppo intensa.

Alla vista di Claudio, Daniela venne per un attimo tentata da una reazione tutta infantile, quasi offesa per la mancata fiducia. Ma sul suo viso era già affiorato, incontrollato e spontaneo, un sorriso di gioia. 
Si alzò da terra e abbracciò il ragazzo facendo attenzione alla fasciatura.
"Sei un disastro, non fai che farti male!" lo apostrofò giocosa. 
Lui le rispose con un'occhiata fintamente offesa. Se non fosse stato per la confusione del momento, immaginò che Claudio avrebbe reagito ricordandole come la pistola, ad Abbiate, le tremasse talmente tra le mani che il cattivo di turno aveva creduto al bluff lo spazio di un secondo.

"Ciao Claudio…" 
Fu tutto quello che Enkada riuscì a mormorare. La sua attesa era evidente e sembrava piuttosto provata. 
"Sono Enkada…io…temevo che non ci saremmo mai incontrati di persona". 
Gli sorrise poi passò oltre.

Marco Nero alla vista del Fratello sentì le sue emozioni prendere vita.
Rabbia! 
Mormorò un'offesa a denti stretti 
Rabbia! 
Le unghie affondarono fino a lacerare i palmi serrati tra le pieghe della lunga camicia. 
Rabbia… 
Un pugno colpì la nuda roccia! 
..…
Il dolore fu come acqua fresca, un porto sicuro nella bufera, luce nella follia.
….
Gioia! 
Rabbia! 
Le emozioni si contorsero come serpi lungo l'anima. 
Gioia! 
Un fratello, no! Un amico ritrovato. 
Rabbia…
Per non riuscire a gestire le proprie emozioni. 
Gioia… 
Ginnungagap l'aveva inghiottito, e poi risputato. 
Rabbia! 
Perché si sentiva prigioniero di se stesso.....
Ho deciso, non andrò a salutarlo! 
Il volto: la solita espressione di sufficienza, una maschera allenata oramai da anni di palcoscenico. 
No! Non andrò.
Le mani ancora gli tremavano.
"Bentornato fratello!" sussurrato a fil di voce "Bentornato...."

Ultimo s'apprestò il Tengu. Marco. Occhi negli occhi, così vicini, così lontani. 
Un soffio, forse uno sbuffo d'aria arrivata dall'alto. La fiammella si spense. Buio di nuovo. 
Quando si riaccese, i due erano stretti, lacrime lente a suggellare un abbraccio che solo loro potevano capire, impermeabile ad ogni tentativo di comprensione esterna, come un segreto tra bambini.
Il nostro segreto. 
Il Nostro e solo Nostro... segreto...

PARTE II: 
LA PREPARAZIONE

Era giunto il momento.
In cerchio gli officianti, silenziosi e pronti. 
Lunga era stata l'attesa, difficile la preparazione. Un eterno silenzio era sceso sulle labbra, un ronzio magnetico aveva giocato tra i loro capelli. Ciò che era fuori mutava in ciò che era dentro, come ciò che era dentro in ciò che era fuori. Tutto si faceva energia libera e fluida mentre il corpo veniva massaggiato da brividi forti e da dolci contrazioni muscolari. Ogni Uomo scelse il suo cammino, su sentieri differenti, con vibrazioni differenti. Tutti per raggiungere la parte più profonda di se stessi e visualizzarla. 

Le parole del Tengu, mentre tutti inspiravano ed espiravano profondamente, risuonavano ancora nell'aria. 
"Il potere di una fervida fantasia è la componente principale di ogni operazione magica*... Create ciò che non esiste e non è mai esistito al di fuori di voi stessi... Create il vostro simbolo, il vostro simulacro... fate sì che egli non sia altro che voi stessi..."

Le palpebre fremevano. 
La luce che disegnava lo spazio si sciolse mescolandosi in macchie di colore sporche d'ombra. 
Ognuno accarezzava il proprio Essere guidato dall'Emozione, assaporandone ogni dettaglio, e lentamente abbandonava ogni fisicità, tenendo quest'immagine intrappolata nel proprio sguardo. 
"Dobbiamo tenere vicini noi stessi per liberarci... per operare sul tutto dobbiamo operare su noi stessi..."

Tengu si concentrò sulle sue più profonde emozioni… le ciglia s'intrecciarono, il mascara s'incollò. Solo qualche istante di buio e silenzio. 
Sei già qui vero?
Violini in lontananza... 
Sapevo sarebbe stato facile... come incontrare la propria immagine allo specchio... lo sai che c'è... lo sai che sarà lì a guardarti... lo sai che se avvicinerai una mano... un'altra mano sarà pronta a incontrarti... lo sai... ed io lo sapevo... 
Il grido d'un rapace...
Ed ora che sei qui, probabilmente deluso di non vedermi addosso alcuna maschera... probabilmente rabbioso per non vedere alcuna spada... ora che sei qui... stai pronto... e attento... 
Parole che scorrevano sull'ordito d'emozione... celate... ma così limpide e chiare...

Max Simonansky avvertì che in lui non c'era conflitto, che ciò che era fuori era solo, null’altro che ciò che era dentro la coscienza, che coscienza e realtà si identificavano.
Non esiste nulla per me che non sia dentro di me.
Il silenzio ed il buio della stanza cominciavano a sopraffare la realtà, o forse le coscienze di ognuno, o forse era la stessa cosa… Brandelli di realtà riposti nelle coscienze di altre persone iniziarono ad interferire con il mondo di Simonasky e le immagini a sovrapporsi.
La realtà stessa sembrava cedere e divenire argilla plasmabile. 
I confini delle cose persero la loro nettezza confondendosi con i confini dei concetti.
Quale libertà? 
Da cosa mi devo liberare? 
Il pensiero è forse una catena? 
La realtà è forse una catena? 
Lo sono entrambi, se nulla li lega. Non esistono catene, se pensiero e realtà sono una cosa sola.
Il corpo di Simonasky si librò sopra il pavimento in pietra, ma a ben vedere forse non lo aveva mai lasciato.

Il volto di Alberto era concentrato, i suoi occhi sembravano vagare in un luogo al di fuori di questa realtà: vedevano spazi profondi, silenziosi e oscuri, rischiarati qua e là da stelle lontane che palpitavano ritmicamente come per farsi notare, o come ultimi spasmi di una vita che sta per finire. Una visione rilassante e terribile allo stesso tempo, la solitudine unita ad una quiete indicibile... poi l'immagine di una stella, più luminosa delle altre. Un simbolo... il mio simbolo... io sono lui, lui è me... il desiderio di vivere ancora...

Arthur non chiuse gli occhi, non ne aveva bisogno. 
Sapeva cosa Tengu stava chiedendo a lui e agli altri, lo aveva fatto molte volte. Più di quante potesse ricordare. 
Lasciarsi andare, abbandonare le apparenze per tuffarsi nelle onde di Okeanos, lasciarsi alle Emozioni del suo cuore, il Riflesso dei Sette che esisteva in ogni nato da donna.
Il cuore batteva lentamente, colpi potenti e solenni. Tra un battito e l'altro il Maestro del Segreto di Destino avvertiva quello dei suoi compagni. 
Battiti diversi, di forza e ritmo diversi. 
Ma sorrise, perché sapeva che quei battiti, ora così diversi, si sarebbero allineati uno all'altro durante il cammino che stava per iniziare, finché, davanti al Cuore della Narrazione, essi avrebbero battuto come un unico immenso organo.
Così sarebbe stato, perché così volevano gli Uomini.

"La Libertà del Tutto sarà nostra opera!" disse Damien a voce alta mentre chiudeva gli occhi e la testa cominciava a ciondolare avanti e indietro.

Le parole continuarono a risuonare nella mente di Enkada. "Creare un simulacro. Il proprio simbolo".
Lei non ne aveva! 
Si guardò attorno: avvertì la concentrazione dietro le palpebre socchiuse dei suoi compagni. 
Quale simbolo? I suoi se li erano presi i gentili signori della sicurezza. 
Il bambino le tirò un calcio. 
Appoggiò una mano sul ventre e cercò di rilassarsi. Croce non le aveva detto nulla, non aveva fatto in tempo a spiegarle molte cose…e lei non era neanche riuscita a parlare con suo padre...a chiedergli le ultime cose. 
Un simbolo...

Tarrant trovava sempre consona la posizione di meditazione Zen in queste occasioni, così come la respirazione Prana Yama. 
Le parole del Tengu gli arrivavano da lontano ma chiare e nitide. 
Si era messo in disparte come sempre faceva e sempre avrebbe fatto.

Nella luce danzava il pulviscolo e Daniela lo osservò, prima di chiudere piano gli occhi: nel buio delle palpebre si disegnarono lampi d'azzurro. 
Altrove, nella stanzaccia disadorna e immensa di una pensione, Erebo, parlando a scatti, le chiedeva di fidarsi di lui e delle persone che aveva riunito. 
Altrove, nella stessa stanza, si era risvegliata senza capire cosa fosse successo, si era sentita male, gli occhi talmente incatramati da non riuscire ad aprirli: il professore compassato e troppo ben vestito le diceva piano di stare tranquilla, cercava di calmarla. "Va tutto bene". 
Sì, Enrico, va tutto bene. 
Buio. Non franare ora.
La mano scorreva lungo la parete fredda. Lei si lasciava guidare dalla voce di Arthur. Una sorta di nenia per la sua paura, mentre camminava lungo lo stretto cunicolo. Ora, dall'alto, una luce la accoglieva in Destino.
Buio. 
Prima arrivarono le parole. Come tracce di quella che era, della sua vita passata. 
Hierro che aveva scritto "Da qui, da queste sbarre si potrebbe toccare il mare". 
Jimenez, con un dolore tenue, mentre la nave partiva: "Il mare, il mare, quante onde che non ritornano". 
"Uomo libero, sempre tu amerai il mare!". Ora vedeva le onde, ne ascoltava il suono che saliva e si spezzava, un po' d'acqua fredda la lambiva.
Ora era, nel buio dei suoi occhi, nel Sacrario di Psiche: il passato accarezzava piano Daniela, ma le onde non tornavano, l'acqua non era la stessa. 
Apri gli occhi. 

PARTE III:
INCOMINCIA IL RITUALE

Poco dopo, nessuno avrebbe saputo dire esattamente quando, arrivò il momento di cominciare. 
Non ci fu segnale, non ci fu parola, tutto cominciò in modo naturale... come era giusto che fosse... luci basse ai lati della grande cantina delineavano appena una bella donna che passeggiava discreta ma ben visibile...

Dal buio si fece avanti Lughnasadh, Davide portò una pietra piatta e liscia, la posizionò. 
Innanzi ad essa una ciotola scura contenente fresco terriccio. 
A Nord.

Si fece avanti Samhain, Max portò una pietra simile alla precedente, la posizionò. 
Innanzi ad essa una ciotola scura contente incenso che bruciava su di un carboncino. 
Ad Est.

Si fece avanti Imbolc, anche Black portò una pietra e la posizionò. 
Innanzi ad essa una ciotola scura nella quale scoppiettava un piccolo fuoco. 
A Sud.

Si fece avanti infine Beltane, Tengu posizionò l'ultima pietra. 
Innanzi ad essa una ciotola colma d'acqua di fonte. 
Ad Ovest.

I quattro Fuochi erano posizionati. 
I quattro Guardiani delle direzioni avrebbero protetto il rito.

Enkada osservò officiare i primi passi. Ne avvertì l'energia sulla pelle. 
La sua concentrazione aumentò. 
Passava lentamente la mano sulla pancia, come se il movimento le permettesse di focalizzare i pensieri.

Damien, inginocchiato, si alzò sfilandosi la medaglia che aveva al collo e la passò nelle quattro ciotole. La immerse nel carboncino e nel terriccio, la scaldò molto nel fuoco e la immerse nell'acqua, baciando la fronte dei quattro guardiani. Infine la indossò nuovamente tornando al suo posto, concentrandosi sul calore che da quel caldissimo oggetto sul cuore si liberava verso l'interno.

Arthur avanzò verso la pietra del Nord: estrasse una bisaccia e la incise con un pugnale, lasciandone cadere un sottile getto di sale immacolato. Con esso congiunse ogni pietra con precisione ricavando un quadrato. 
Il quadrato che era il mondo fisico, la Terra, animata dai suoi elementi, dalla sua mutevolezza e difesa dai suoi guardiani. 

Dietro di lui emerse Flavius che sapientemente prese a tracciare un antico sigillo al di fuori del quadrato: segni tratti dal Grimoire del Signore del Doppio Spirito, simboli e intrecci geometrici dai colori differenti, tra i quali si distinguevano i simboli dello Zodiaco... quelli dei Sette Pianeti... e quindi quelli dei Sette Eterni... 
Al termine di esso Arthur chiuse il disegno tracciando in senso orario un cerchio di sale. 
Il cerchio che era il mondo astrale, metafisico, l'individuo che diventa il tutto... 
Gli officianti sfilarono ordinati, disponendosi uniformemente lungo la traccia circolare, tenendo tra le mani una ciotola contenente terriccio scuro. 
L'ultimo granello di sale decretò la fine della preparazione.

E nella semioscurità Flavius recitò con fermo trasporto mistico: 
"In nome dell'Uomo ti chiamiamo Mensheinheit
poiché di lui sei quattro volte parte
e l'hai scelto come tuo Sacrario"

Lenta, la prosecuzione della formula, tre voci, una dopo l'altra.
La voce impostata e rilassata dell'Uomo Leopardo: 
"Io, Follia, scelgo e sono"
Quella acuta, fredda e tagliente di Black 
"Io, Ragione, scelgo e sono"
Di nuovo Flavius, il tono saturo di potere 
"Io, Psiche, scelgo e sono"
E poi, all'unisono
"Sia Responsabilità tra tutti noi, sia la quarta ancella nel cuore di ogni uomo ad egual modo"

I quattro alzarono lo sguardo, non più solo quattro dinnanzi alla Terra, ma quattro volti di Uomini. 
Levarono le mani fino all'altezza della vita. E per la prima volta, il ciclo si aprì dall'Inverno, dal Riposo, dalla Stasi... da Est.

Samhain, Max, scandì chiaro il canto della fine. 
"Io sono il Ricordo di ciò che è stato. Io sono il Ricordo di chi è caduto. Io sono il Tempo dell'oscurità profonda che porta alla Luce più splendente." 
Accarezzò il fumo dell'incenso.

Imbolc, Black, scandì chiaro il canto dell'inizio. 
"Io sono la Prima torcia che s'accende e sfavilla. Io sono il Primo sguardo del reale desto. Io sono il Tempo dell'Azione e della rinascita incontaminata." 
Accarezzò le fiamme danzanti lasciandovi cadere la benda nera attorno al polso. Gocce di sangue scivolarono giù per il braccio. 

Tengu lo stava osservando rapito.
Claudio non sai quanto tu lo sia... tu non puoi immaginare... non puoi...

Beltane, Tengu, scandì chiaro il canto dell'unione. 
"Io sono l'Uno che si mescola al tutto. Io sono l'Ardore che unisce e lega. Io sono il Tempo della grande Unione che cova il frutto nel grande grembo" 
Immerse le dita nell'acqua.
E adesso…
Fu come se l'acqua gli avesse stritolato la mano con fauci enormi e sottili.
ECCOMI... nelle tue acque di montagna... oltre lo specchio che ritrae dietro di noi il nostro cielo... Eccomi Madre... Eccomi Padre... Eccomi Isabella... Eccomi... a voi tutti che siete oltre... sono qui..

Infine Lughnasadh scandì chiaro e potente il canto del raccolto. 
"Io sono il frutto dell'Unione. Io sono la Maturazione e l'abbondanza dei Doni. Io sono il Tempo del raccolto delle messi, della saggezza e del Potere" 
Raccolse una generosa manciata di terra portandola verso l'alto.

Lughnasadh tuonò ancora. 
"Io che ora sono un tutt'uno con questa Terra,
ne Raccolgo la forza in nome delle Emozioni di cui è pregna, 
ne Raccolgo l'energia in nome dell'Uomo e per l'Uomo, 
ne Raccolgo il potere e lo farò mio con Responsabilità". 

Una dopo l'altra, le alterazioni levarono le loro voci. Ognuno recitò la formula scandendola lentamente con toni differenti e forza crescente. Ognuno di loro, chi prima chi dopo, immersero la mano nella terra levandone una manciata al cielo e stringendola forte.

"Nelle nostre mani la terra, nelle nostre mani il potere"

Ciò che è stato. Chi è caduto. Il canto echeggiò piano nella mente di Daniela, quasi l'addio che non aveva potuto pronunciare. Immerse la mano nella terra, concentrandosi sulla sensazione di concretezza, di freddo, immaginando la sua mano sporca. 
Essere umano, che viveva nel tempo, tutt'uno con la terra che ora stringeva forte nel pugno. 

Tengu pronunciò la formula con trasporto.
Vi siete accorti che tutto sembra distante?...forse vi sarete abituati... provate ad ascoltare... le parole della superficie arrivano soffocate... chissà se cercando di parlare usciranno solo bolle e le acque mi stritoleranno la gola... chissà se puoi sentirmi... dovresti essere qui... ma non ti vedo più...

Pietra fredda contro pietra fredda! 
Marco Nero non era molto sicuro di quello che stava facendo. 
A dir la verità non sapeva neanche più perché fosse lì! 
Ad Arthur aveva dato la risposta che credeva vera, vera per lui, ora, ma in quel momento non ne era più così convinto. 
Oh, figlio di Enigma…
Perfino in sé non vedeva chiarezza, talmente tante erano le maschere che ricoprivano come sudario la sua anima.
Vero! Cos’è il vero? 
Chi, cosa sono? 
Cosa sei?
Cosa (quanto?) voglio?… oro? 
L’incenso ora era mirra!… Fuori: strane voci "Io sono il Ricordo di ciò che è stato. Io sono il Ricordo di chi è caduto.."
Brucia! (non pensavo, non credevo) 
Si, credevo…. (cosa?, chi?) 
Ora non credeva più (aveva mai creduto?) Non voleva la verità (Quale? Esiste?) 
Cercava solo il marcio, la putrefazione nella carcassa; l’errore e quel che aveva detto l'aveva scritto: parole vuote sulla riva del mare; segni inutili condannati a un’inutile 
inutile?
morte. 
Parole (mie?)! 
Perché il segno necessitava di significato? Voleva davvero un significato?
Voglio… 
Ma non farmi ridere.. tu vuoi? 
Ti sei trascinato lungo un’esistenza vuota riempita di.. 
Di cosa? (non so!) 
Hai rubato le vite degli altri per dare significato alla tua! 
Significato? Ancora? 
Cos’era il significato se non il valore che lui stesso dava alle cose? 
Il segno… Ockham… il segno... 
Ora! 
I segni di Marco erano come un mandala. 
La sabbia imprigiona!… suoni mai nati 
(Nascere?) nascere! 
Dove? Come? Perché? 
Un solo gesto… una sola onda! 
La mia mano sulle rune: Dolore! 
No, non posso (voglio?) toccare! 
Provo! (devo?) 
Un solo gesto… una sola onda! 
Era pronto al dolore! 
Il dolore è vita! 
Noi nasciamo nel dolore! 
Un solo gesto….brucia!! 
Tengo la mia vita in una mano (che poca cosa!) 
Posso decidere del mio destino (illuso!) 
Posso! (Voglio!) 
Un lupo azzanna la sua preda. Lei si contorce…. E forse muore!

Anche Enkada seguì gli altri, avvolta dal rituale di cui era parte. 
"Io che ora sono un tutt'uno con questa terra..." 
la voce le uscì sussurrata, la manciata di terra fluiva tra le sue dita 
"ne Raccolgo la forza in nome delle Emozioni di cui è pregna" 
da tempo ormai sentiva tutte le Emozioni scorrerle addosso 
"ne Raccolgo l'energia in nome dell'Uomo e per l'Uomo" 
pensò a ciò che era, a come era stata considerata e definita, ancora non sapeva se era un Uomo 
"ne Raccolgo il potere e lo farò mio con Responsabilità" 
Responsabilità. Quella parola la seguiva: tutto le era successo perché aveva voluto essere responsabile.
"Nelle nostre mani la terra, nelle nostre mani il potere" 
Le ultime parole le uscirono decise. Ne avvertì la forza. Non ci sarebbe stato ritorno. 
Nessun ripensamento. 
Si sentì inebriata.

Zed, che era rimasto in un angolo, quasi nel buio, apparentemente continuando a sorseggiare il vino dorato dal suo bicchiere, penetrò con decisione nel quadrato. 
Alzò il bicchiere che sembrava avere la forma di un coppa: 
"Questa è l'Essenza del Reno, distillata da secoli e custodita in questo tempio". 
Quattro ombre parvero apparire accanto ai quattro guardiani, mentre Zed (ma era lui? Sembrava un vecchio incartapecorito) versava lentamente il vino per terra e le quattro ombre mormoravano: 
"Questa Essenza scioglierà i Legami; questa Essenza irrigherà il raccolto della Responsabilità; questa Essenza farà nascere la Libertà". 
L'ombra che aveva sostituito Zed, e che qualcuno riconobbe, bagnò le labbra alla coppa mentre la cantina sembrò assumere una dimensione diversa, diventare un tempio greco. 
L'ombra si guardò intorno mormorando: 
"Perché è giusto che il Nuovo Millennio sia controllato da quegli Uomini che si sono Risvegliati da soli, da quegli Uomini che si sono risvegliati alla pulsione della Responsabilità. Per questo, utilizzando il MIO Libero Arbitrio, io mi sono dato Morte; perché questa è la mia Responsabilità, quale che sia il mio Destino." 
Aureliano bevve a lungo dalla Coppa e poi Zed porse la coppa ad Arthur ritraendosi di nuovo nel buio.

Arthur aveva atteso ai margini della stanza finché non era rimasto per ultimo. 
A quel punto si avvicinò alla terra e ne raccolse una manciata in entrambe le mani. 
Ripeté la formula come gli altri ma al plurale:
"Noi che ora siamo un tutt'uno con questa Terra. 
Ne Raccogliamo la forza in nome delle Emozioni di cui è pregna, 
ne Raccogliamo l'energia in nome dell'Uomo e per l'Uomo, 
ne Raccogliamo il potere e lo faremo nostro con Responsabilità. 
Noi. Ashura e Chontamenti.
Nelle nostre mani la terra, nelle nostre mani il potere."
Una lacrima rigava il volto dell'irlandese.

PARTE IV:
LA CONCLUSIONE DEL RITO

Dentro di loro intanto accadeva quello che il Tengu aveva loro spiegato essere il Rito della Liberazione. 
La vera conclusione e la vera prova di tutto il rito prendeva forma proprio dentro di loro.
Dopo aver focalizzato dentro di sé il proprio Essere, il proprio Canale, il proprio Simulacro interiore, ora dovevano farlo uscire, permettere che il simbolo si manifestasse, spingendo, strattonando, lasciandolo scorrere dai pori o vomitandolo dalla bocca: non importava come, dovevano farlo.
Come una Farfalla che si libera dalla sua Crisalide (**) dovevano rompere la carne per far uscire l'anima... per crescere.

Farfalla... 
FARFALLA... 
Psiche... 
PSYCHE... 
Anima... 
ANIMA... 
Libera... 
LIBERA.

Tengu fu il primo….
Posso morire.
È il ricordo ancestrale di mia madre... è così semplice... 
Vi rincontrerei tutti quanti? Sarebbe bello... posso quasi accarezzarvi...
Anima... 
ANIMA... 
Libera... 
LIBERA.
Posso farlo...
Posso farlo...
Posso farlo...
Ogni bagliore si spense. Ogni parola scomparve spazzata via da una grande onda. Ogni architettura cedette sotto la furia della catastrofe lasciando solo detriti e frammenti di qualcosa che un tempo lontano era stato... la schiuma raccolse il tutto come un tesoro prezioso e lo depose a riva: tutto, compreso un piccolo fagotto di carne e ossa, una strana creatura bianca, lustra come una perla in mezzo alle alghe.
Marco rivide il mondo con uno spasmo. Le mani pallide incontrarono la pietra, l'oscurità, e scivolarono subito nell'aria densa, spiegando le dita come piume... un abbraccio d'aria... due grandi ali nere...
"Il mio supremo atto di libertà... la mia scelta..." – rantolo doloroso – "vivere".

A quelle parole Damien Tarrant aveva sentito sulla sua schiena il simbolo interiore rivelatogli da Erebo. Glielo aveva descritto come tre “V” intrecciate: Valore, Vendetta e Vittoria. 
Lo sentiva dentro come sulla carne, aveva aperto gli occhi e si accorse di poter vedere meglio al buio ma in bianco e nero, non per le candele, ma per la certezza che per un fugace momento i suoi non erano più occhi umani ma quelli di un lupo... un ricordo ancestrale del suo potere principale a cui non poteva più ricorrere dalla notte dell'Armageddon, per un attimo si risentì Libero.

Bruno inspirò l'aria e lasciò che entrasse nei suoi polmoni. Si guardò una mano come se fosse trasparente, come se sotto una pelle di vetro potesse vedere ciò che era lì nascosto: il sangue che scorreva nelle sue vene. 
Un sangue nero e contaminato. 
Sul suo volto si poteva leggere una totale assenza di emozioni o forse questo era semplicemente segno di accettazione e consapevolezza. 
- Io sono MORTE CHE CAMMINA. - In un sussurro che nessuno poté sentire.

Aliria pensò alla terra. Scura. Fertile. Ciò da cui tutto nasce, tutto è nato. Il ciclo che si compie, ripetendosi sempre uguale e sempre differente. 
Un fiore. 
Un fiore con i petali delicatamente dischiusi. 
La promessa di un frutto. 
Io sono la terra. 
Io sono il fiore. 
Io sono il frutto
La promessa di un futuro. 
Di tutti i futuri possibili. 
Liberi. 

Dentro Damien si generava l'immagine di quella Farfalla e ripassando la sua vita tornava indietro vedendola strisciare nutrendosi del Grande Albero. Aggiunse:
Linfa 
LINFA 
Principio 
PRINCIPIO 

Il pensiero scoppiò nella mente di Max: la realtà ­ LA REALTA’! 
Essa contava, ed essa sola.
La sola libertà: unire pensiero e realtà, terra e coscienza, divenire perfettamente coscienti… unirsi alla terra.

Il corpo di Alberto si contrasse, percorso da una incredibile energia... la sua anima era vicina alla liberazione, poi tutto passò... 
LIBERTA'....

Contraddizione. 
Enkada pensò che tutto ciò che lei era, era contraddizione. La vita dentro di lei cresceva e lei aveva scelto di narrare quella storia, anche se non aveva chiesto di iniziarla. 
Questa era la sua Libertà. 
Si accostò a quella parola con circospezione. Non era sicura di poterne avere: troppe cose erano successe ad influenzare la sua vita, a vincolarla, a cercare di darvi una direzione. 
L'anima le uscì dalla punta delle dita, lentamente, e si condensò turbinando, divenne una medaglia: un lato chiaro, uno scuro. Così come lei era. 
Mosse solo le labbra ma ugualmente lo disse: "Libera".

Daniela si concentrò sulle parole…
Onde sporche di cadaveri. Sul ponte. Disposta a morire. 
Eppure aveva sempre creduto che mai avrebbe sacrificato la propria vita. Aveva. Daniela assaporò il respiro. Ascoltò battere il proprio cuore. Un sapore di sale le sfiorò le labbra. 
La libertà la invase. 
La libertà era lei stessa, la sensazione era così forte che quasi le si spezzò il respiro, chiuse gli occhi come se potesse guardare dentro di sé e individuarne la forma. 
Non tentare di pensare. Di tenere sotto controllo. 
Stava spezzando la vecchia pelle. 
Non puoi fermarla. 
La paura guizzò come brace, mentre tentava un'ultima resistenza. Le sue sbarre, sempre nuove, sempre diverse: avrebbe potuto farne senza? 
Spezza. 
Seduta, le gambe incrociate, Daniela piegò leggermente all'indietro la testa. Il suo sembrava un urlo espresso solo da un respiro più forte. 

Mitrescu era apparso freddo durante il rituale...freddo ma non indifferente. 
Aveva avvertito la sacralità e il potere del luogo. Aveva percepito la sincerità, la passione, la devozione degli officianti e le aveva rispettate... ma era rimasto infastidito dalle forme che avevano assunto. 
Anni donati alla filosofia gli avevano insegnato a diffidare del simbolismo, dei rituali elaborati, della teatralità. 
Amava la sostanza, i messaggi diretti, le frasi esplicite urlate a squarciagola. Pure la cerimonia in qualche modo aveva sortito il suo effetto, e in questo momento lo costrinse a parlare:
"Fratelli, per giungere alla completa Liberazione devo abbandonare ogni forma a priori. Anche quelle della cosiddetta metafisica. Non ho condiviso il rituale. È legato a schemi che appartengono al passato, a una Rete che non è più, a forme che paralizzano la mia mente. Rispecchia la mentalità di chi, come Horus, è accecato dal rimpianto dei bei tempi perduti. Miope e conservatore. Preferisco fare a modo mio". 
Chiuse gli occhi per concentrarsi, per aprire il proprio spirito al Logos. 
"La magia è pura Volontà, tutto il resto è un contorno di comodo, umano troppo umano. Per questo non offrirò oggetti simbolici, non compirò gesti coreografici, non intonerò antichi canti. Sarò semplicemente me stesso. 
Chiedo a Psiche il dono di Salomone: Intelligenza affilata come una spada, Intuizione rapida come il lampo, Incertezza, l'insegnamento di Socrate, la costante sensazione di essere lontani dalla Verità. Queste sono le uniche Tre I di cui ha bisogno l'Uomo.
Offro la mia vita, anni per tradurre la Tua voce, anni per insegnare agli Uomini a ragionare in assoluta libertà: l'unica via, la Tua Via".

Infine una coppa prese a circolare partendo da Flavius e sfiorando le labbra degli Uomini Liberi, uno ad uno, rilasciando il vino sublime per l'ultima volta: l'ultimo sorso. E come nell'ultima cena quel vino era molto di più per i Figli delle Emozioni: era un sapore nuovo, la prima boccata di Libertà.
Questo rappresentò il primo passo. 
Questo fu il primo gradino. 
Liberarsi.

Daniela si sentì libera. Non sola. 
Indugiò con la coppa tra le mani e bevve lentamente un sorso di quel vino che la univa agli altri. 

Enkada non si stupì, quando, accostatasi alla coppa, sentì che il liquido che le bagnava le labbra aveva il sapore delle lacrime.

Sorpreso Marco bevve... Latte.

Per Aliria fu acqua. Acqua di montagna, ghiacciata, limpida e pura.

Solo Bruno fece in modo di passare la coppa al suo vicino senza che si accorgesse che non aveva bevuto. 

Simonasky invece, discostandosi dagli altri, si stese bocconi sulla terra con un movimento impossibile e il mantello che lo nascondeva sembrò non contenerlo più.
La sua coscienza si espanse all’Universo, e l’Universo era chiuso nella coscienza….
Si perse in Okeanos, che era e sempre fu l’Universo, perse e riacquistò un significato, perse e riacquistò consistenza.
Il mantello si gonfiò di nuovo, delineando una forma di uomo gigantesco, di cui s’intravedevano mani possenti e rudi e una foltissima barba nera. 
La figura rimase supina, col viso rivolto alla terra e le braccia aperte. 
La sua voce profonda si fuse colla terra e risalì allo spirito.
Non lo vedi il mondo? 
Non vedi cosa lo muove, qual è la lotta che lo agita, qual è la ferita che lo percorre, a volte sottile e profonda, a volte ampia e gonfia di sangue? 
Non vedi che qualunque cosa facciamo, qualunque parola diciamo, è l’espressione di questa lotta, di questa sorda e maledetta guerra che percorre l’umanità da sempre e dovunque? 
È la lotta del forte contro il debole, del debole contro la morte. 
È la lotta dell’opulento contro l’indigente, dell’indigente contro la sofferenza. 
Ogni politica, ogni partito, ogni stupida menzogna di oratori ignari o prezzolati non sono che scenografia e maschera intorno a questa lotta che non conosce soste né pietà. 
E non illuderti, non è la brutale e ingenua lotta naturale per la sopravvivenza. 
Deboli e forti, tra gli uomini, si nasce e si muore, senza giustizia né meriti. 
Questa lotta disperata non è altro che una deliberata mattanza. 
Ci scherniamo, ci nascondiamo, ci rifiutiamo di vedere, capire, sentire dentro di noi la disperazione che percorre l’umanità in ogni istante, l’immenso dolore che spaccherebbe il cuore, l’immensa ingiustizia che spezzerebbe la coscienza di chiunque, se davvero la si facesse propria per un istante. 
Ci laviamo la coscienza col detersivo della carità, la chiamiamo di volta in volta beneficenza, welfare, o aiuto umanitario, pensando che sia giustizia, quando la giustizia ha un solo nome: Distruzione. 
Una Distruzione vasta, profonda e appassionata, che non lasci traccia del preesistente. 
Distruzione e Desiderio, sono le emozioni degli sfruttati e degli indigenti del mondo. 
Rivolta, Libertà, e Anarchismo sono le vie della Giustizia, i canali per la Distruzione e il Desiderio.
Le tre parole si addensarono in concetti e presero una loro sostanza.
E l’Universo si adattò alla loro presenza.
L’immensa figura si raccolse in ginocchio. 
Quando alzò lo sguardo da sotto il cappuccio, chi guardava ebbe l’impressione di vedere la figura imponente di Michaijl Bakunin. 
Un secondo sguardo rivelò l’espressione serena di Simonasky, e quel corpo non sembrò più così immenso.

Lentamente i rivoli di sangue sul braccio di Black si andavano intrecciando in un mandala ineluttabile. 
Sul polso la cicatrice si era delineata netta. I contorni di un labirinto stilizzato, duri e inevitabili. 
Ma la nuova consapevolezza dell'identità Reale-Labirinto impedì a Black di incamminarsi ancora una volta per quelle buie vie. 
Imbolc, Senno, Ingenuità, Black Fire, Fratello, amante. Identità, volti, Maschere. 
Creduto morto. "Forse lo sono stato". 
Creduto vivo. "Forse non lo sono mai stato". 
Sorrise. Nella personale lotta per la ricerca del sensus inditus aveva trovato la libertà. 
Non sfidava un Uomo. Non una Nota. Non un Eterno. La sua sfida era verso la Realtà, l'ultimo Enigma. 
È solo questione di tempo, si disse tra sé. Prima o poi il balletto senza senso diverrà un perfetto meccanismo. 
Ed il suo io tramutato in falena puntò spedito e senza paura verso il cuore della fiamma nera. 

Un forte e inebriante odore aveva riempito la stanza. 
Un’essenza dolce, vagamente fruttata. 
Un buon intenditore avrebbe detto "Bianco del Reno".
Risvegliò le narici dei presenti, permeò tutto il loro volto mentre saliva diretto al cervello.
Estasi. 
Ebbrezza.
Nella testa uno scintillare di sinapsi che si univano, in combinazioni mai provate. 
Tutto ora appariva chiaro e lucido come un progetto ben illustrato. 
Tutto ora appariva chiaro e confuso come le follie d'un pazzo.
Ognuno riusciva ad intuire i minimi dettagli nei volti degli amici, a vedere i loro squinternati pensieri dietro le loro spalle, a vedere e sentire l'ombra di chi non era più e mai più sarebbe stato.
L'ebbrezza raggiunge il climax, ognuno oramai seguiva il proprio sentiero per andare a bere alla coppa di Madama quasi incurante dei sentieri altrui.
Perché ognuno aveva i propri pensieri, ognuno aveva le proprie follie. 
Ma tutti avevano un faro.
Libertà.

(*) Paracelso
(**) si rifà al concetto di Farfalla=Psyche=anima greco, ovvero l'anima può trovare la libertà dalle catene della carne come una farfalla trova la libertà uscendo dalla crisalide. 

PARTE V:
LA FINE DEL MOVIMENTO DI PSICHE

I partecipanti al rito si ripresero lentamente dall'estasi. La testa doleva ed i ricordi erano un po' offuscati. 
Ma la strada davanti a ognuno di loro era nitida, e ora ne avevano piena coscienza, pronti a riprendere il cammino.

Enkada si riscosse lentamente dalla profonda concentrazione in cui era entrata. La sensazione di essere tutti uniti nello stesso rituale stava lentamente svanendo, lasciando solo un lieve torpore, come dopo un orgasmo. 
Attorno a lei c'era solo l'oscurità della stanza, l'umidità dei muri, e la presenza palpabile dei suoi compagni. Il primo passo era fatto. 
Pensò al Professor Croce e sorrise a se stessa.

Davide uscì dalla cantina del ristorante con il solito sorriso ebete e senza parlare a nessuno si cercò un angolo in cui stare senza doversi spostare se qualcuno gli fosse passato vicino. 
Aveva sempre odiato stare in piedi nei passaggi e dover dribblare la gente. 
Se ne stava lì, con gli occhi che guardavano oltre, senza curarsi di fare una panoramica per vedere le reazioni al rituale di quelli che conosceva.
Dava l'impressione di un drogato appena fatto: "Non fate caso a me, sto leggendo il finale..."
La stessa cosa che aveva detto sbrigativamente al primo briefing di Settimo Torinese, quando Turant si era avvicinato con il suo bisturi. Davide non lo aveva degnato di uno sguardo, anche se aveva raccolto la mano tesa in saluto. 
Così per tutti gli altri che lo avvicinavano in quei giorni: si limitava a rispondere con gentilezza, ma il più sinteticamente possibile. Non sembrava neppure vedere realmente gli interlocutori, ma più probabilmente guardava loro attraverso. 
Ogni volta, appena possibile, si sganciava e non faceva mai una domanda che potesse allungargli il tempo del discorso. Impermeabile a quello che gli capitava attorno, si limitava a eseguire sorridendo quanto gli veniva chiesto di fare. 
Non sembrava essere lì.
All'arrivo al ristorante aveva avuto a malapena un accenno di sorriso più marcato, ma la cosa era tornata presto alla sua normalità. Aveva mangiato il minimo indispensabile per far credere di condividere l'attività con il mondo, ma l'impressione era che non sentisse neppure i sapori.
Poi aveva eseguito il rituale come se stesse giocando, come se stesse ancora negli scout intorno al fuoco a danzare un bans. Ma non si divertiva più del solito o quantomeno non lo si vedeva. Sentiva gli altri vomitare, gioire, urlare: lui, con una sbrigativa smorfia di dolore, aveva constatato unicamente che la sua cicatrice tribale stava schizzando abbondante sangue, squarciandosi oltre i suoi confini zigrinati. 
Era andata anche lei oltre la forma. 

"Manca poco..."
"Già", gli fece eco Flavius, risistemandosi la fascia da lutto. 
Era stato anche lui molto in disparte, sbirciando con occhi tetri chiunque, come se in lui la speranza di equilibrio si stesse incrinando persino oltre la soglia della notte dell'Armageddon, quando aveva mancato l'appuntamento con il rituale di Anomalia e aveva trovato al suo posto i Traghettatori.

Il gesto di Flavius attirò l'attenzione di Daniela. Un gesto così semplice, banale, da passare quasi inosservato, eppure il dolore, improvvisamente, sembrò trovare una breccia e annebbiarle lo sguardo. In quel gesto l'assenza di Enrico. In quella fascia. 
Bevo anche a te. All'inganno di labbra che tradirono, al morto gelo dei tuoi occhi.... 
Scorie di versi fluirono. 
Ognuno con le sue ferite…. pensò guardandosi intorno, mentre risentiva la voce del Maestro che si chiedeva cosa tenesse insieme persone tanto diverse. 
Lontana, osservava Flavius assaporando, come spesso le accadeva in questi giorni, una sorta di sensazione agrodolce. 
Sembrava stanco. Quanto diverso da quello che, a Ginevra, aveva parlato con lei della sua Scelta. Eppure, nonostante non si fossero più visti per mesi, sapeva di poter contare sul suo aiuto. 
Nessuna presunzione di risposta a quel chissà di Arthur, ma pensava che alcuni avessero stabilito, in quei mesi, un legame di lealtà e di amore (le piaceva chiamarlo così, tra sé e sé) che aveva superato qualsiasi diffidenza tra i Movimenti.

Nel frattempo Flavius si era avvicinato a Tengu e, dopo aver parlato con lui per qualche istante, si rivolse al gruppo appena riformatosi. 
La sua voce era solenne e forte, con una punta di tristezza. 
"Fratelli, qui si è conclusa la prima tappa del nostro Cammino. Qui si è esaurita la parte che il Sapiente aveva previsto per L'Uomo".

Enkada era uscita dalla cantina tra gli ultimi. Si sentiva stanca, anche se piuttosto inebriata. Quello che voleva ora era una doccia. 
Ma Flavius aveva iniziato a parlare. 
Non ora ti prego... 
Lo pensò solo. Aveva bisogno di una pausa, di raccogliere i suoi pensieri, ma già la voce dell'uomo si alzava attirando l'attenzione dei presenti. 
Rimase in piedi, in prossimità delle scale per i piani superiori, sperando fosse una cosa breve.

"Noi, noi Uomini, in questo luogo e con le nostre Volontà, abbiamo concluso il lavoro da lui stesso iniziato. Abbiamo permesso alla sua essenza di completare quella Trasmigrazione che aveva profetizzato, nonostante il tradimento di un Volto della Prima Ancella del Sommo".
Fece una pausa poi riprese.
"Ebbene sì, nonostante Dream, e grazie a voi tutti, la sua Libera scelta è infine realizzata. Nonostante tutto, nonostante... i morti" – la voce dell'uomo di fece ancora più bassa e calda – "e grazie alla nostra Volontà di Potenza".

I Morti. 
Enkada vide che lo sguardo di altri accanto a lei si offuscava, perso dietro a un nome o a un ricordo. Non era l'unica ad avere dei lutti. 
Ma già le parole di Flavius tornavano a scorrere, forse non ci sarebbe stato tempo per la doccia.

"Il Mostro di cui sono la Fiaccola ci lasciò nel suo martirio questo insegnamento: che solo l'Uomo, con l'uso Responsabile della Volontà, può innalzarsi e spezzare non solo le sue catene, ma anche quelle che imprigionano il Pathos, così come Marzia, alla guida di un gruppo di coraggiosi, lo liberò infrangendo la sua Chimera".
"Il Libero Arbitrio del Sapiente, così, si realizza. Questo io qui attesto e dichiaro. Psiche ora finalmente non è più. Finalmente è diventato quatrino, trascendendo in Mensheinheit e integrando Responsabilità insieme a Follia, Ragione ... e Psiche stessa. Così l'equilibrio che si spezzò con la rete è infine ritrovato. 
Mensheinheit, colui che rappresenta al contempo l'Umanità intera e ciò che la rende diversa da un branco di scimmie parlanti. In questo processo questo luogo ha perso ogni potere, e la Mente Condivisa dei Risvegliati è assurta a Nuovo Sacrario".

"E questo" – mormorò Claudio a bassa voce – "è il primo passo verso l'Ultimo risveglio della Ragion pura".
 
Flavius continuò il suo discorso: "Mai più un luogo fisico, ma il luogo matematico di tutti gli Uomini. In ogni Uomo, d'ora in poi, vi sarà un mattone del tempio di Psiche, Follia, Ragione, Responsabilità. Il Libero Arbitrio del Sapiente, così, si realizza. Questo io qui attesto e dichiaro".

"Chi sa come la prenderà Odino", commentò Claudio senza alcuna ironia nel tono.

Con quell'ultima frase le spalle di Flavius si erano rilassate, un lieve fruscio imbarazzato della giacca precedette il resto del discorso, che assunse toni meno formali e al contempo tristi.
"Ma non è tutto qui. Per ogni chimera infranta del Pathos, c'è stato un tradimento. L'ancella che tradisce, i fratelli che tradiscono, e a molti di noi viene negata la morte che merita. Croce non è qui per vedere quello che è successo, e il suo assassinio è solo l'ultimo di una lunga serie".
Spiner si guardò in giro, fissando lo sguardo in particolar modo su Le Chat.
"Qualcuno di voi forse ha ricevuto delle indiscrezioni, ora è giunto il momento di rivelarvi l'ultimo mistero essoterico di Psiche. Croce era Brother Janus, ultimo membro del Consiglio Invisibile, l'ordine direttivo del Movimento di Psiche. Dalla notte dell'Armageddon i suoi membri hanno iniziato a sparire". 

Daniela aveva ascoltato le parole di Flavius con un'attenzione spasmodica. Le tessere di un mosaico che Croce le aveva a suo modo fornito si andavano improvvisamente ricomponendo. Brother Janus. 
Di quanta incomprensione era stata capace. 
Daniela reclinò appena la testa su un lato, lo sguardo catturato dalle reazioni di Claudio, il cui volto si era fatto duro, affilato. 
Con dita pigre, si massaggiò il polso sinistro, in un gesto automatico, là dove avrebbe incontrato il freddo sottile del suo cerchio d’argento. 
Erano molto diversi lei ed Enrico. 
Lo immaginò apostrofarla sardonico: "non sei riuscita ad aiutare Erebo, poi me, scommetto che sei tormentata dai sensi di colpa... e smettila!", liberandola con una risata aspra. 
"Certo" – il solito, familiare rimprovero a se stessa affiorò improvviso. Serrò le labbra – "qui si parla della dissoluzione di un Movimento e io volo bassa sullo specchio d'acqua delle mie Emozioni..."

Anche Enkada aveva sgranato gli occhi al nome Brother Janus.
Ecco per cosa stava la firma BJ nelle mail che mi mandava... 
La stanchezza era scemata, come sempre quando c'erano cose più importanti da fare. 
Le parole di Flavius cadevano pesantemente attorno a lei: ognuna di esse avrebbe richiesto ore di riflessione per essere compresa appieno...

"Molti di noi hanno intuito un attacco, altri meno, tutti però si sono avveduti del progressivo scemare delle attività del Consiglio, anche dopo il suo apparente fermento dell'ultimo anno. Uno dopo l'altro i membri del CI sono spariti, Brother Janus è stato l'ultimo spillo a cadere prima del Velo".
La voce dell'uomo era adesso tormentata, passionale, il tono, rabbuiato mentre parlava dei lutti, si era progressivamente alzato.
"Ma anche questo era stato profetizzato dal Sapiente. Il ritorno all'Invisibilità del Consiglio non è che la contropartita fisica della trasmigrazione metafisica che noi abbiamo qui compiuto stasera. Non esiste più il CI. 
Non esiste più Psiche stesso. 
Non esiste più il suo vecchio Sacrario. 
Le Note del movimento sono tutte almeno in parte trasmigrate, chi in Gaia, chi nel Traghetto, chi a Bah... ormai solo una scheggia di Ragione àncora quel che resta di Socrate al reale, per aiutarci a completare l'esecuzione testamentaria delle Volontà del Sapiente".
Un sorriso gli si dipinse in viso.
"Eh già, torna tutto. CI, Sacrario, Eterno, Note... Quattro, come il numero dell'Uomo! Perché è giusto che il Nuovo Millennio sia controllato dagli Uomini e per questo, utilizzando il suo Libero Arbitrio, il nostro movimento si è dato Morte. Eh già. Ebbene, qui, in nome di Mensheinheit, dichiariamo sciolto il Movimento di Psiche, perché questa è la nostra Responsabilità, quale che sia il nostro Destino".

Un brusio sgomento attraversò gli astanti. 
Spiner sembrava essersi liberato di un grosso peso. 
Era davvero convinto mentre parlava, e convincente. 
Solo ora un risoliso da matto gli attraversava il volto.

A quelle parole, tra le mani di Black comparve una maschera, venuta da chissà dove. Metà era bianca, d'un candore abbacinante, l'altra metà nera come la notte. 
Era una maschera che i Fratelli in Psiche conoscevano bene. 
Sorride, levandola in alto. 
Poi, aprì il pugno. 
La maschera planò a terra come una piuma...
"I simboli sono solo un passaggio: quando la Ragione si eleva ad un livello abbastanza alto, e così Follia, non ve ne è più alcun bisogno. Così io rompo questo simbolo, e con esso tutti gli altri. Io sono ora un settimo dell'Uomo Nuovo, e cammino sul viale del Tramonto degli Dei, ed il Sapiente mi ha indicato la strada."
La maschera si infranse a terra in mille schegge che volarono leggere negli angoli più remoti.
"Psiche è morto. Io l'ho ucciso. Sia lodato il Sapiente"
E per un attimo sul fondo degli occhi baluginò un Nero così profondo come mai s'era visto. 

Per qualche istante Enkada non pensò a nulla, poi la sua mente comprese la portata di ciò che Flavius stava dicendo. 
Psiche non esisteva più. 
O meglio. Esisteva ancora, ma in modo differente. 
Non pensò alle conseguenze che ciò avrebbe comportato, non pensò ai problemi di metafisica che certo sarebbero sorti: pensò che quella era una scelta logica. 
Pensò a quante volte si era arrabbiata chiacchierando con Black perché la sua logica l'aveva disarmata, o quante volte il Professor Croce l'aveva lasciata incapace di dare una risposta. 
Ancora una volta il folle movimento di Psiche aveva fatto la scelta più logica.
Sorrise a Flavius che sogghignava a qualche metro da lei. Lui neanche la vide in mezzo al brusio crescente. 
Adesso aveva bisogno di un po' di tempo per sé. 
Si voltò e salì le scale.

Il risolino di Flavius divenne contagioso. 
La sua espressione a metà fra serio e il terrore di essere linciato non passò inosservata all'Uomo Leopardo. Chi non gli stava vicino inizialmente pensò che avesse un problema all'occhio. D'altronde tutti lo avevano visto sanguinare prima. 
Era lì, sghignazzava piano piano e si teneva un fazzoletto pigiato sul volto. 
Effettivamente era rosso in viso, il fazzoletto pure diventò color ruggine, ma una lacrimuccia esilarata usciva dall'altro occhio. 
"Ahahahaahhahahahah... maddai... no davvero, va bene così. Mi serviva giusto una torcia di più in giardino, quella la piglio io... Ah, e nessuno dimentichi il cineforum di fine serata. Il reading si terrà poi. Abbracci e baci... e  'fanculo".
Turant si avvicinò per controllare che stesse bene, tirandosi su le maniche. Quel gesto mise in evidenza una profonda ferita rossa su un avambraccio. Pareva rimarginata, eppure aveva qualcosa di strano, come se non dovesse chiudersi mai del tutto. 
Leopardo lo tenne lontano, distrattamente, con una mano e, nel gesto, la canna che stava fumando gli cadde per terra; a quel punto Black, che ora in piena luce si mostrava un po' malconcio, convinse il destinante a desistere.

Pantarkos si abbassò gli occhiali da sole che aveva sfacciatamente indossato in ogni momento. Uno dei due occhi frugò nel vuoto inseguendo quello che ancora ci vedeva. 
Diede di gomito a Tarrant e indicò in rapida successione con la coda dell'occhio il gruppo. 
"Guarda che cottolengo. Qui fra marchiati" – indicò se stesso e Damien – "torturati, stigmatizzati, mezzi ciechi, gente che si sferruzza i polsi ogni volta che dice abracradabra, stiamo messi bene!". 
Il sorriso sardonico di Tarrant fu un commento più che eloquente. 

PARTE VI:
MEDITAZIONI

I vecchi padroni di casa si ritirarono per discutere della rivelazione, dietro una tenda che separava il bancone dalle cantine. 
Ogni tanto pareva di vedere qualcuno sbracciarsi, ma era solo un secondo.
Quando uscirono erano tutti nuovamente seri. Avevano in mano un po' di targhette in rame su cui erano incise quattro frasi. 
L'Uomo Leopardo riprese la parola. Aveva gli occhi rossi di cannabis ma non sembrava annebbiato. 
"Oh raga, scusatemi se io sono un po' meno formale di effeesse, qui" – fece un cenno a Flavius, che gli sbatté in mano le sue targhe per stroncargli la risatona imminente – "comunque questi sono gli esercizi spirituali da fare fino alla prossima tappa del pellegrinaggio".
Alla svelta circolarono le piccole sfoglie di metallo. 
Su ognuna erano incise da un lato un pentagono e una piccola immagine con qualche parola e dall'altro una serie di brevi frasi, un tao e un'icona di Giano bifronte. 
"Sarebbe bello se in memoria di Psiche osservaste il più completo digiuno fino alla prossima ...messa!" 
 
 

 

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