CRONACHE DAL PICCOLO NULLA
di
Eterodossi



Capitolo 10 - Metropolitana ter


 

L’orologio di Alain forse va un po’ avanti, quello di Vinicio è biologico e rotto da una vita (esattamente da una vita fa) e rintocca solo i pasti della Caritas.

“Faccio le sette e cinque! Dov’evi?”

È sbronzo. E ha pure un taglio in faccia. Dannato stupido.

“E che cazzo hai combinato?”

“Stavo accordando con amici per aiuto. Albanesi”.

Le mani nicotiniche prendono la faccia del barbone. I due volti sono vicinissimi.

Alain gli guarda l’occhio annegato da vicino, in cerca di un empathico all’ascolto in quella testa, e lo trova, lì in poltrona a godersi lo spettacolo.

“Qual è il piano?”

Prima parte un ceffone.

“Così ti svegli!” – bugia bugia era per sfogarsi – “Pev evitave pevicolose sepavazioni o, in altevnativa, vimozione fovzata della macchina, si pavcheggia la suddetta in vegolave sito con tanto di gvattini, non distante dal luogo dell’appuntamento, ma nemmeno tanto vicino. Si pvende un taxi, al quale si fa fave un givo lungo, tanto per vevificave eventuali pedinamenti. Se tutto è ok, lo si fa fermave vicino all’uscita della metvo, gli si dice di aspettave, si scende tutti e due e si va a pvelevave Ognuno, Olimpo, Olindo e puve Ovazio. Se tutto va come pvevisto, salita vapida sul taxi, vitorno alla macchina e pavtenza per luogo mistevioso. Tutto chiaro, testa di vapa?!”

“Sì sì, hai ragione tu.”

 

Il tassista ci guarda un po’ corrucciato, ma i soldi in più che gli diamo per aspettarci hanno già comprato la sua diffidenza da primate che guida. Ha accettato perfino la presenza dei cani nella Multipla.

Vinicio scende dietro, così i pankabbestia non lo vedono scagliato giù dal taxi in corsa. Il francese si guarda in giro pronto a accoppare chiunque si pari innanzi a lui.

“Povtato vinfovzi? Ma dove sono?”

“Sono vicino, non ti preoccupare”.

Per terra umidiccio e scendiamo le scale di finto granito con falcate legnose per la tensione – ci mancherebbe che si scivola e ci si scassa. Forse giusto Vinicio è abbastanza molle e marcio dentro che non si spezzerebbe nulla.

Una signora grassa si affaccia alla bocca della metro guarda che piove, dice una cosa ovvia, prende l’ombrello nella borsaccia sdestreggiandosi come un dislessico col Parchinson.

“La signova deve avev fatto la cuva snellente di Vanna Mavchi” – sogghigna sottovoce Alain – “Speviamo che non pvovochi un ingovgo”.

Vinicio la guarda:

“Non si preoccupi, non piove davvero, è un impressione!”

E poi Alain attacca a vociare:

“CIVCOLAVE, CIVCOLAVE, PVEGO!!!! AGEVOLAVE L’USCITA DEI PASSEGGEVI!!!”

Non è propriamente un profilo basso. Vinicio si tuffa nel buco al motto di “Io sono l’idraulico liquido!”

Si tiene sempre schiacciato sulla parete per evitare di essere associato ad Alain o peggio ai punkabbestia.

Loro aspettano incattiviti a fianco all’uscita. Gli albanesi dall’altra. E Anubi, distratto, da lassù.

Vinicio atterra nel sottosuolo facendo stage diving dalle scale, paro paro quelli di em–tivì. Il tempo di girarsi a suggerire al compare di comparire sotto dove si campa e non sbraitare sopra, dove si crepa, e uno scheletro con spolverino impolverato gli atterra dietro, superandolo.

E via a correre dietro ad Alain, il cui passo lungo è più o meno come una corsa affannata del barbone. Passano i negozi in poco tempo, in tanfo alacre della fretta e del vapore acido metropolitano ad accompagnarli. Il francese lo tira per un lembo del cappotto nonostante tutti i suoi sforzi di fare svelto.

La scena ricorda vagamente il classico padrone trainato dal cane. La scena si inverte improvvisamente quando Vinicio si impunta come alano in calore davanti a un palo di suo gusto.

“Vinicio, sei un kog–lione... e le alpellibe che aveva chiesto O.O.O.O.? dove le hai comprate?” dice un uccellino nella testa.

Alain lo perde un secondo, solo per vederlo correre in un altra direzione e schiantarsi contro la cassa del baretto.

Prende un pacchetto di caramelle e torna a correre verso il casello della metrò. Non che vada meglio, l’ABS fa cilecca di nuovo e si ritrova una barriera in mezzo alle palle. Il contraccolpo fa ruzzolare per terra grasse gocciole di sudore, e le caramelle. Col moviolone, nel complesso ricorda un po’ una scena di Rocky.

Si fruga in tasca. Trova altre caramelle (DOH!!) e il biglietto.

E via. Fuori i cani, in paziente attesa davanti al taxi, rizzano il pelo.

Metto un biglietto nell’obliteratrice con gesto burocraticamente corretto; il sorriso condiscendente e ammiccante fatto all’impiegato che ruba lo stipendio si sbriciola sulla sua figura quando si cementifica al momento che passa un’onda d’urto. Con un brivido gelido e rumore d’affettatrice.

Come lo spostamento d’aria di un obice da 150 la ventata grigia inonda la metropolitana. Dal profondo della metro è venuto l’effetto della dimostrazione di un dominio sul Reale: – incantesimo – magia – qualche tipo di potere sullo scorrere del tempo. Tutto si ferma. Ogni oggetto o persona sembra fatto di gesso polveroso, tutto statuizzato. Mi giro verso Vinicio nell’ansia e lui allarga le braccia:

“Non mi guardare così! Non sono stato io!”

“Seguimi!”

È incredibile trovarsi improvvisamente in un mondo che è una fotocopia in scala di grigi di quello in cui ti muovevi un attimo prima. Mi passano per la mente in rapida sequenza: la foresta pietrificata –> lo sguardo della medusa –> i Langolieri... Non ho tempo per stare a stupirmi. Il tempo è denaro. No, in questo caso non c’entra niente! Il tempo è vita o morte.

Ci buttiamo verso le scale, su quelle mobili pietrificate i passeggeri sono fermi nel salire ad un arrivo rimandato. Tutti manichini, tranne il professore Olimpo Ognuno che sale con passo elastico le scale grigette. È tutto grigetto, tranne Alain, Vinicio e la tartaruga calva di quattromila anni. Siamo i tre unici, gli unici soli a muoverci nella metropolitana:

“Vi è familiare il concetto di bolla temporale? Solo io e un paio di altri siano così bravi.”

Alain misura il sottominigonna di una bonazza–statua dall’apparenza grigetta, ma che dà l’idea di biondona in originale.

“Mi raccomando – amici cari – non toccate nessuno. Lo attirereste nel nostro tempo e la bolla che ho raccolto vale solo per un’oretta per noi tre...”

“Beh, questa qui me la attivevei volentievi,” sghignazza Alain, bloccando appena in tempo e a malincuore una mano birichina – “Ma che caz....pita ha fatto, professove!?! Questa è magia!!! Ma è così anche fuovi, tutta Roma? Allora bene, vuol dive che il tassametvo non giva, tutto vispavmiato.”

“Devo deludere il suo portafogli, tempo addomesticato solo qui: usciamo nel tempo brado appena saliamo le scale... Ma il risultato è lo stesso, anche se non lo capite...”

“Così entriamo nella metro e ne usciamo dopo un secondo col malloppo...”

“In tanti secoli è la prima volta che mi danno del “malloppo”... Saliamo di qua, appena alla luce diretta della testa di dio saremo di nuovo nel tempo brado...” con passo da vecchio atleta si affretta verso l’uscita di via Albenga. L’è tutto sbagliato, l’è tutto da rifare:

“Guavdi che abbiamo la macchina dall’altvro lato, via Ad–v–ia, Vinicio dillo tu.”

Vinicio si sente un po’ come quei personaggi dei film che fuggono sott’acqua da qualche terribile nemico. Si guarda intorno in apnea, cercando una vasca rovesciata a mezz’aria, sotto la quale fare tappa cercando un po’ di ossigeno metafisico:

“Via Adria. Etorri, rapido!”

Il gruppetto a colori si muove veloce in quel mondo in bianco e nero... niente di nuovo. Ci hanno fatto così almeno tre film – nel più famoso i personaggi entravano letteralmente in una TV scombussolando tutta la finta vita della fiction – e una serie a cartoni.

Guarda Alain:

“E chi sono io, Paul o Mina?”

I cani sono fuori che aspettano. I bastardi buoni e i bastardi veri. Bella certezza del cazzo.

“Uscire qui non è la stessa cosa, come quando ho inventato la pasta alla carbonara: mica vorrete mettere la pancetta nell’uovo?”

Svicoliamo tra due negri pietrificati che parlavano accanto a borse di pietra e Cd falsi di gesso:

“Qui c’è il taxi che aspetta, di là allunghiamo...”

Saliamo piano. Dai piedi delle scale vediamo il sederone della donna coll’ombrello fermo in cima all’uscita; per noi è immobile, appena usciamo riprenderemo a muoverci nel tempo di tutti, torniamo in sincrono:

“Ma a che è servito, professore? Mi sembra un giochino inutile...”

“Lo sembra perché non vi rendete conto del vantaggio di passare sotto il naso a due sicari mescolati alla folla che abbiamo attraversato e che non ci hanno visto uscire in questo momento rubato. Vantaggio pieno se ci fossimo impegnati ad uscire dall’altro lato. Viceversa...”

Alain ficca la mano in tasca al giaccone:

“Ce ne erano due sotto? Ecco il taxi... muoviamoci... li abbiamo dietvo.”

“Viceversa cosa, professor?!”

“Viceversa qui ce ne è uno che mi aspetta”.

Non sono i peli dei cani a rizzarsi, ma certi miei ciuffi arruffati nel collo del cappotto. Vedo che dietro ai punkabbestia che mi indicano – “ecco il basco, c’ha messo un attimo proprio” – arriva al trotto una ragazza bionda con un top rosso fuoco, una ragazza che è tutta desiderio, vita, bellezza e mette la mano dietro la cinta mentre viene qui. Qui dove piomba una figura che passa come un lampo nero nella coda dell’occhio e che getta nell’orecchio di tutti un breve, rauco ruggito:

“A morte!”

Io mi paro davanti al dottore, com’è vero Destino metto mano alla roncola nella giacca e Alain mi strilla:

“Copvi il pvofessove!” e scarica dei colpi di pistola dalla tasca.

Questo si muove peggio di matrics, forse Alain lo prende.

ANIMADISCIMMIA Vedo due occhi pieni di vita, vorrei pensare che contengono lo stesso sguardo di Zoe. PIEDEFULMINE. Buio pesto.

Il tipo ha scaricata una zampata paurosa nella cassa toracica di Vinicio, dalla tasca si spara male. Ho sbriciolato un finestrino del taxi, è troppo veloce, forse ha già ucciso Vinicio. Con cattiveria mi torco, stendo pistola sparo:

– Tié, BOM tié BOM adesso BOM ci voli tu all’inferno!!!– CUOREMONTAGNA.

Colpi di pistola, la pistola, è troppo per tutti tranne nonmorti e stregoni. Sullo sfondo la folla rotea in una fuga sorpresa.

– ‘Azza, male alla schiena. Ci si mettono pure i cani.. Almeno Vinicio si rialza, mi sembra che lotti di più col suomio cappot...–

Un cane ganascia la gamba dell’aggressore.

– Carogne, chi mi bastona da dietro al buio? Ah, no, è il selciato... –

ANIMADISCIMMIA Quelle sono le gobbe dei punkabbestia che si allontanano dalla sparatoria in contromarcia con due maremmani sporchi.

– In piedi, molla i miei cani stronzo... Che cazzo di male al petto sangue, sangue mio, ragazzi fatelo a pezzi! Arrivo, quello è Alain o un puntaspilli?–

Sul nostro aggressore si attaccano una mezza dozzina di canidi di varie taglie.

PIEDEFULMINE Quello si batte come una furia, i cani sono troppi anche per lui. PIEDEFULMINE CORPODINEBBIA. Arrivano altri cani, tutti cani i cani dell’universo.

Scompare sotto una valanga di cani. PIEDEFULMINE Prego che bastino a sbranarlo.

PIEDEFULMINE CUOREMONTAGNA Non bastano.

“Il prof, dov’è il prof?!”

Il taxi comincia a muoversi, ci salto dentro e Vinicio segue di corsa.

“Dai dai!!”

Ma chi guida?

“Ho preso la prima patente nell’altro secolo, amico mio.”

“Allova vallenta – Ahhaaa!! – che lo facciam saliv – Ohi!”

Non riesco a poggiarmi senza che mi pugnali un dolore alla schiena. Ho nella spalla una sventagliata di stecche metalliche, di ferro qualcosa, Attilia sta raccogliendo l’uomo coperto di sangue che ci ha attaccato appena davanti all’uscita della metro in mezzo a una muta di cani impazziti. Corrono guaiscono abbaiano, saltano addosso ai nostri aggressori per essere respinti a calci e pugni.

“Sali cammina!”

“Faccio salire i cani. Che hai nella schiena?”

“Sei pieno di sangue in petto...”

“Vecchio, fai guidare me. Vinicio sfilami questa roba...”

I cani mi guardano preoccupati, prima mi apro la giacca, ne esce la roncola a pezzi, si è fatta corazza. Le schegge di ferro mi hanno tagliato, mi brucia il petto, respiro, niente di rotto. Scosto maglia e maglione sdruciti, in mezzo al petto ho un lungo, profondo taglio da cui sanguinano pelle e carne molle. Un lungo taglio verticale a onda. Lo guardo bene che brucia dai bordi rossi e bianchi. Sembra che una serpe di ciccia mi sia sfuggita dal seno. Mi chino tra i sedili, Alain ha quattro pesanti lamelle di metallo piantate nella schiena. “Bosciurichen”, dice una vocina nella mia testa. Appuntite, rigide e scagliate da una mano d’assassino. Assassina bionda. Ci deve essere un motivo se le sorelline e i loro uomini non usano armi da fuoco.

Ho pensato ad alta voce.

“Sono fatte così. Uccidono a mani nude. Forse perché la maggior parte delle loro vittime sa evitare le pallottole, da quando le hanno inventate. Ma che ne capite voialtri.”

“Ci faccia capive allora qual è l’altva pavte del piano, gvan capo, non avviviamo da nessuna pavte in questo stato. E se le viene di dive che vuole che andiamo da mia madve, si immagini la visposta più volgave che ha sentito nella sua lunga espevienza!”

“Non si alteri, mio caro amico, confronto a me Mr Wolf è imbranato”.

“Ha visto Pulp Fiction?”

“Perché? Era vietato ai maggiori di anni mille?”

La risatina chioccia scheggia le parietali. Ci guardiamo. Siamo in mano a un pazzo vecchio di secoli, almeno ha ancora voglia di ridere e va al cinema. Chiede il telefono ad Alain e con scioltezza compone un numero e parla con qualcuno a cui da ordini e parole. Refe, garze, graffe, grazie. A un semaforo due ragazzini da un finestrino si studiano due ditate sanguinolente sul nostro sportello. Tiro via.

Giriamo e voltiamo. Farmacia. Il vecchio scende con agilità nanesca senza aspettare la sua scorta insanguinata. Riesce e ordina di fare una manovra. Dietro troviamo Domenico.

“Pvovessore, questo è uno degli uomini di sua figlia,” didascalizza Alain, “avendo lei la passione dei Giuda ci denuncevà il minuto dopo che ce ne savemo andati. Se non ha già chiamato.”

“Domenico? No, Domenico, non fa nulla di sua iniziativa, farà tutto quello che gli dico, vero, Domenico?”

Le ultime parole suonano come guinzaglio, giornale arrotolato, museruola, schiocco di frusta. Domenico annuisce con un mezzo sorriso. Spoglia la spalla di Alain in uno stanzino da veterinario squattrinato mentre i cani e il basco controllano la rampa e il professore guarda in silenzio un pezzo di quartiere. Chissà quanto è rimasto in metropolitana. Disinfezione e pulitura, facile. Sul petto del basco si forma invece un quadro astratto di punti, graffette, cicatrizzante in polvere, segretato in una complicata impacchettatura del torace.

“Sotto i vestiti lovdi sei abbastanza pulito...”

“La puzza è una cosa, gli eritemi da lerciume un’altra.”

“Facciamo il pieno in un distributore che dico io, come dico io, pevché lo dico io. Andiamo?”

Scuotiamo la testa per riandare in macchina. Ci dobbiamo studiare le domande. Andiamo nel posto in cui siamo diretti e ci si metterà il tempo che ci vuole ad arrivarci.

Sorprendo Domenico che pulisce l’interno della macchina con una spugnetta. Mi fa pena. Per il suo silenzio e complicità contro il prof la Venturi gli deve aver promesso un po’ di catena. Il vecchio gli dice due parole, gli dà due buffetti e si siede in macchina con un sorriso a occhi socchiusi. Guida Alain.

Guardo meglio il rianimatore mentre partiamo, lo lasciamo impalato sulla rampa con la spugnetta in mano. Non devo leggere il pensiero per sapere che è del tutto pentito di avermi resuscitato. Gli abbiamo pure fregato un maglione. Ho trovato un maglione.

Saxa rubra.

“Dobbiamo mollave i cani.”

“Te lo scordi. Te lo devo dire in francese?”

“Non sono un problema, dottor Meltemi. Il potere sui cani del suo amico puzzone ha fatto più della pistola. Dove lo ha imparato, mio caro Fernandez?”

“Non sono stato io.”

“È stato lei, invece. Glielo dice uno che ci capisce.”

Lucus feroniæ.

I cani hanno occupato più di mezzo sedile ma stanno tranquilli, abbastanza. La strada ci getta contro il ritmo regolare della linea di mezzeria, le lunghe pause dei sorpassi ai camion. Buttato dietro il petto mi parla di bruciore e di fitte della pelle che si stira, incolla, scolla, allenta nella cacofonia di ordini da graffette e cicatrizzanti. Mi distraggo giochicchiando con le mie vecchie domande.

“Che cosa ci costringe a ubbidire? Solo il patto di MOMM, che questo vecchietto insiste a chiamare Sobek, una resurrezione di seconda mano in cambio della scorta al prof? Così sembra tutto troppo semplice. Anche il fatto che per ora abbiamo tenuto a bada delle assassine paranormali e i loro trucchi. Che cosa ci impedisce di morire? L’aver fatto parte della setta del Pathos, aver creduto ai sette, Psiche, Destino, Sogno eccetera? E poi che succede dopo che abbiamo fatto il lavoro? Che cosa costringe Mamma Odio a ubbidire? Lei ci ha resuscitato, lei ci ha dato tutte le istruzioni e i supporti che gli abbiamo chiesto. Coperti di disprezzo, va bene, ma ha fatto tutto, anche se sappiamo che è dalla parte di chi vuole liquidare il vecchio “quattro O”. Il patrigno la deve tenere proprio per le palle...”

Orte, next stop: Firenze.

Andiamo spicci e lisci. Fermarsi a fare un po’ d’acqua e a imbarcarne non sarebbe male, ho di nuovo sete. Anche i cani sembrano volere fare rifornimento. Mi tiro su per fare una domanda a orecchie basse e sento nel pugno che stringo qualcosa che ho girato e girato mentre mi facevo la pensata ordinata. Un pacchetto di – DOH! – alpellibe. Sono a posto, con tutti gli sbatacchiamenti e le smucinate che ho subito corpo e beni – neanche fossero fatte di t-t-t-t-U-n-n-n-G-G-s-teeenooo!!!

La domanda che mi veniva viene sostituita in meninge gelatinizzata:

“Professore, scusa, cioè scusi lei. Che ci dovevo fare con queste, eh, eh, eh?”

“Ah, bravo. Passatempo. Gioco di un povero vecchio di nuovo. Le mangi. Ma una alla volta.”

Parla con la testa un po’ torta ma senza degnarsi di guardarmi. Il profilo della gota da un quarto è quello del ghigno. Se l’è studiato nei secoli o gli viene naturale; la figlia lo ha imparato male, gli viene troppo cattivo.

Mi piacciono le caramelle. In questa vita forse ne ho desiderate di più.

La caramella sa di sé stessa. Di buio. Di mondo e mondo passato.

Appoggio la mano sul mio cane. La piramide schiacciata della carreggiata inquadrata nel cavalcavia numerato tremulo si spappola nel parabrezza, poi l’immagine del parabrezza si gelatinizza e quella macchia squagliata è il pupazzo dell’uomo ragno che di solito rotola a destra e sinistra sul cruscotto di Alain.

È più di quello, la carezza sulla guancia è tutta motivata: piango perché ricordo. La memoria della mia vita passata riaffiora come schiuma su un latte di capra morta bollito dalla strega; la sua prima forma è tristezza. Lottai. Lottai tanto. Venni sconfitto.

Caddi. Un ragazzo dal volto femmineo, con lunghi boccoli rosso sangue e la pelle cianotica, fango al lato della bocca, la guancia premuta a terra da una forza invisibile, scruto perplesso l’aldilà. 

 

 

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