Settimo Foglio: Cacciatore di mostri
"Val più un amico che cento parenti, e se Domeneddio non ha
dato denti à ranocchi, una ragione ci doveva pur stare. Così
tu, che sei nato di gatta, piglia topi al buio. Noi qui si vende di tutto.
Per chi ha quattrini non c'è voglia che non si possa soddisfare.
Se vuoi essere ricco devi aver un parente in casa al diavolo! E qui, in
questo negozio, il diavolo è di casa".
Così parlava Jacopo, venditore di mostri a Ponte Vecchio,
apparso come per incanto al giovane Arunda, sudanese in fuga dalla maledetta
Africa senza speranza. Un disperato, Arunda, come molti altri, condannato
forse per sempre ad una povertà insormontabile, fino a quella notte
in cui Jacopo aprì il suo negozio al centro del ponte, quando tutti
gli altri erano ormai chiusi da un pezzo.
Cosa
ci facesse un negozio di mostri a Ponte Vecchio, in quella notte glaciale
che anche alle pietre battevano i denti, nessuno potrebbe dirlo. Ma questo
ad Arunda non importava. Quell'omino piccolo e insignificante gli stava
offrendo un lavoro: cacciatore di mostri. Non c'erano clienti nel negozio
di Jacopo, immerso in un velo di silenzio interrotto soltanto dallo scorrere
impetuoso dell'Arno in piena. Nessun testimone potrà raccontare
di aver assistito alla nascita su Ponte Vecchio di
Nessun testimone potrà giurare di aver visto Arunda firmare
un contratto per la fornitura di 10 (DIECI) serpenti favolosi che il deserto
libico,
e chelidri, e jaculi, e faree, nomi per lui assolutamente sconosciuti
che Jacopo gli assicurava di poter pagare con somme altrettanto favolose.
Nessuno. Però Arunda intraprese quel viaggio verso l'immensa Libia
delle leggende e verso le ricchezze che aveva sempre sognato, se è
vero che era suo il cadavere irriconoscibile del giovane Africano ritrovato
dieci giorni dopo, impigliato in un canneto alla foce dell'Arno, con un
serpente a due teste tatuato sul braccio.
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